Il lutto. Giaime Rodano, ricordo nel segno di Charles Péguy
Giaime Rodano
Lunedì scorso ci ha lasciati Giaime Rodano, figlio di Franco, il protagonista insieme a Felice Balbo della stagione dei cattolici comunisti durante la Resistenza. Giaime, che portava lo stesso nome di Pintor amico del padre, era stato preside in un liceo romano e, da alcuni anni, era in pensione. Schivo e appartato non mancava, nella sua pagina Facebook, di offrire il suo punto di vista con una grande passione ideale e civile per la quale le note di tristezza, derivate dallo scenario presente, non indulgevano mai al risentimento.
Personalmente ci siamo conosciuti su Facebook per poi proseguire il nostro dialogo per telefono e via mail. Il Covid ha impedito una conoscenza diretta e questo rende ora il vuoto della sua assenza più sensibile. Tre cose ci hanno uniti: l’interesse per il confronto tra Augusto Del Noce e Franco Rodano, la stima per papa Francesco, l’amore per il poeta Charles Péguy. Giaime aveva curato La nostra giovinezza di Péguy nella versione degli Editori Riuniti del 1993. Nel 2016 sua era la cura de Il denaro, per l’editrice Castelvecchi, con una sua prefazione dal titolo Péguy l’antimoderno, profeta del 'postmoderno'. La passione per Péguy, il più grande poeta cristiano della Francia del ’900, l’autore de Il mistero della carità di Giovanna d’Arco e il redattore dei 'Cahiers de la Quinzaine', morto a Verdun nel 1914, gli era stata comunicata da suo padre.
Lo aveva ricordato lui stesso nel webinar 'Charles Péguy un genio cristiano', diffuso il 23 febbraio. «Ero un ragazzino e, quasi di nascosto, sentii una delle conversazioni frequenti a casa mia tra Palmiro Togliatti, segretario del partito comunista, e don Giuseppe de Luca, il famoso amico di Giovanni XXIII. Notai che l’incontro iniziò con una lunga conversazione su Péguy. Ne parlai con mio padre il quale mi chiarì molte cose su Péguy. Lui lo amava e me lo fece amare». L’incontro del 23, organizzato dal Centro Culturale di Milano, era stato per lui un momento importante.
L’occasione era la presentazione del volume Il fazzoletto di Veronique, una vasta antologia di scritti di Péguy, di cui taluni mai tradotti in italiano, edita da Cantagalli e curata da Pigi Colognesi. Oltre al curatore erano presenti lui, il traduttore Antonio Tombolini, il moderatore Alessandro Banfi, il sottoscritto. Subito dopo l’incontro mi aveva inviato una serie di appunti in cui tra l’altro scriveva: «Come oggi – ci dice Péguy –, anche ai tempi di Gesù c’era la cattiveria dei tempi.
Ma Egli non incriminò il mondo, non lo coprì di accuse, ma lo salvò. Lo salvò dal peccato, dal peccato di origine, l’unico in fondo a essere il peccato: uccidere il padre, sostituirsi a esso, farsi Dio invece di essere suo figlio. Sono affermazioni cruciali che ci aiutano a comprendere il peculiare cristianesimo di Péguy. Mi limito a cenni essenzialissimi: a) la chiamata della grazia – una provocazione di Dio –, per molti, ma non per tutti; b) il santo e il peccatore quali figure centrali di tale chiamata; c) la lunga durata della incristianizzazione (il mondo antico e della sua mistica pagana), della cristianizzazione (fondata dall’evento della croce, di un Dio che ha bisogno della creazione come essa ha bisogno di Dio, perché eterno e temporale sono fusi tra loro) e della scristianizzazione (il mondo moderno dell’intellettualismo disincarnato e del cristianesimo senza Cristo, dei chierici che predicano ma non amano); d) la risposta affidata alla piccola figlia Speranza che sollecita nuova fraternità tra gli uomini». Si trattava di appunti di grande finezza nei quali traluceva l’intelligenza e la sensibilità cristiana di Giaime: il primato della grazia, la vicinanza al peccatore, l’insofferenza di fronte all’intellettualismo e al clericalismo, il ripudio dello spiritualismo e l’adesione al cristianesimo 'carnale', il legame tra la 'piccola' speranza e la fraternità. Da qui anche la sua sintonia con il pontificato di Francesco.
Sempre negli appunti scriveva: «Un cristianesimo adulto che può parlare al mondo di domani. Non a caso papa Francesco, nella sua ultima enciclica, ha posto al centro il tema cruciale della fraternità, non a caso nel recente sinodo postamazzonico, ha citato questi versi dell’Eva di Péguy: Non mi piacciono quelli che credono di essere della grazia perché non hanno la forza di essere della natura. Quelli che credono di essere dell’eterno perché non hanno il coraggio di essere nel tempo. Quelli che credono di essere con Dio perché non stanno con le persone. Quelli che credono di amare Dio perché non amano nessuno». Colpito dalle sue note gli avevo proposto di trarne un saggio per la rivista 'Studium' cara a mons. Montini.
Aveva accettato con gioia. Poi la telefonata sulle sue condizioni di salute, sulle analisi da fare, il rammarico per un impegno che al momento non poteva essere adempiuto. Ora che non è più tra noi lo ricordiamo per la sua umiltà, privo di ostentazione nonostante provenisse da una famiglia che ha contato nell’Italia del dopoguerra, per la sua passione cristiana immersa nella storia. Non ci siamo conosciuti direttamente, né abbiamo potuto stringerci la mano. Resta l’amore per Péguy, la prossimità che ha creato tra noi, il rispetto e il rimpianto per una persona che ha reso degno il tempo dell’esistenza.