Letteratura. Nelle lettere di Giacomo Leopardi c'è il buio oltre la siepe
Un ritratto di Giacomo Leopardi
Col volume Carteggio Giacomo Leopardi - Carlo Pepoli (1826-1832) (a cura di Andrea Campana e Pantaleo Palmieri, pagine 166, euro 35,00), la casa editrice Olschki inaugura la collana “Carteggi leopardiani”. Il piano dell’opera prevede di pubblicare, in 20 tomi affidati a studiosi scelti, le corrispondenze di maggiore spessore e consistenza tra il recanatese e i suoi interlocutori nel corso degli anni (i prossimi due volumi saranno quelli dedicati alla corrispondenza rispettivamente con Leonardo Trissino e Francesco Cancellieri). Si tratta di un’importante iniziativa editoriale, che consentirà di sondare da un lato gli specifici scambi epistolari, dall’altro i profili biografici e culturali dei corrispondenti, offrendo in tal modo un significativo contributo, di tipo storico-documentario, alla conoscenza della vita, del pensiero e dell’opera di Leopardi.
Tra i più belli di tutta la letteratura italiana, l’epistolario di Leopardi raccoglie più di 900 lettere, scritte tra il 1810 e il 1837, fino a pochi giorni prima della morte. Indirizzate ai familiari (il padre Monaldo, il fratello Carlo, la sorella Paolina), ma anche a importanti personalità intellettuali dell’epoca, come Pietro Giordani, Vincenzo Monti e Giovan Pietro Vieusseux. È anch’esso, a suo modo, un classico della letteratura italiana, un’opera monumentale, grazie alla quale possiamo ricostruire la vita interiore, le esperienze, le speranze e le delusioni dell’autore. Attraverso le lettere, si può insomma ripercorrere l’intera vita di Giacomo, che in esse testimonia gli snodi fondamentali della propria esistenza.
L’amicizia con l’intellettuale laico e democratico Pietro Giordani si svolge soprattutto sul piano epistolare. Giacomo non ha ancora abbandonato le idee paterne, conservatrici in politica, religione e letteratura, quando nel 1817 l’amicizia “a distanza” con Giordani lo stimola a un decisivo ampliamento di prospettive, conducendo il giovane poeta alla cosiddetta “conversione letteraria”. Giordani diventa anche il confidente prediletto della situazione personale e degli stati d’animo nel «natìo borgo selvaggio». In diverse lettere a Giordani, Giacomo scrive di sentirsi «mangiato dalla malinconia, zeppo di desideri, attediato, arrabbiato» (agosto 1818), «stordito dal niente che mi circonda», senza «più lena di concepire nessun desiderio, né anche della morte, non perch’io la tema in nessun conto, ma non vedo più divario tra la morte e questa mia vita, dove non viene più a consolarmi neppure il dolore» (novembre 1819), «stecchito e inaridito come una canna secca, e nessuna passione trova più l’entrata di questa povera anima» (marzo 1820).
Nel 1819, Giacomo, raggiunta la maggiore età, cerca di sottrarsi all’oppressiva tutela dei genitori, fuggendo da Recanati. Prima di partire, scrive una lettera d’addio al padre, una drammatica testimonianza del bisogno di evadere e del desiderio insopprimibile di scegliere da solo la via della propria esistenza. Il tentativo di fuga verrà scoperto e Giacomo dovrà rinunciare all’impresa, ma ci rimane questo straziante documento in cui egli difende strenuamente la propria scelta, affermando un insopprimibile bisogno di autonomia.
Tre anni più tardi, nel novembre 1822, Leopardi ottiene di poter lasciare Recanati per coronare il sogno di conoscere, direttamente e non solo dalle pagine dei libri, la città di Roma. C’è la segreta speranza della famiglia che lo zio Carlo Antici, persona con buone entrature, possa ottenere al nipote una sistemazione presso la Curia pontificia. Il progetto però non va in porto e il soggiorno di Leopardi termina nell’aprile del 1823: cinque mesi segnati dalla profonda amarezza nel constatare la distanza tra la città immaginata e quella reale, che Giacomo trova vuota, corrotta, dissipata.
La sensazione, a quel punto, è che non gli rimanga altro che la solitudine. Così scrive al padre Monaldo pochi giorni prima di tornare a casa: «Io sono naturalmente inclinato alla vita solitaria. [...] nella solitudine io rodo e divoro me stesso. [...] qualunque soggiorno m’è indifferentissimo». Ma anche il ritorno alla poesia della primavera del 1828 è testimoniato dalle lettere. Il 2 maggio di quell’anno scrive a Paolina: «E dopo due anni, ho fatto dei versi quest’Aprile, ma versi veramente all’antica, e con quel mio cuore d’una volta».
Sugli ultimi anni, quelli napoletani, le lettere di Leopardi aprono alcuni significativi squarci. La permanenza nella città partenopea, dapprima fonte di un certo benessere («la dolcezza del clima, la bellezza della città e l’indole amabile e benevola degli abitanti mi riescono assai piacevoli», scrive nel 1833), diventa via via sempre più difficile per l’incompatibilità con l’ambiente (nel 1835 confida al padre di voler fuggire «da questi Lazzaroni e Pulcinelli nobili e plebei, tutti ladri») e soprattutto per il deteriorarsi della salute (Leopardi morirà a Napoli il 14 giugno 1837).
Nel suo specifico, anche il carteggio Leopardi-Pepoli è ricco di spunti di interesse. Il nome del corrispondente è noto ai lettori dei “Canti” perché uno di questi ultimi è un’epistola in versi intitolata Al conte Carlo Pepoli: in essa, scritta nel marzo 1826, il poeta dichiara di rinunciare alle illusioni, con il proposito di dedicarsi allo studio del «vero».
Ma chi era Carlo Pepoli? Patriota e letterato bolognese (1796-1881), fu vicepresidente dell’Accademia dei Felsinei, che il lunedì di Pasqua del 1826 accolse Leopardi per la sua lettura del canto dedicato a Pepoli, il quale rispose qualche mese più tardi con una poesia in memoria di Livia Strocchi, figlia del rinomato classicista e poeta Dionigi Strocchi. Durante la rivoluzione del 1831, è membro del governo provvisorio. Prigioniero degli Austriaci per breve tempo, esule in Francia, si trasferisce poi a Londra, dove ottiene la cattedra di Letteratura italiana all’University College. Ritornato in Italia nel 1848, sarà ancora esule in Inghilterra dal 1849 al 1859.
Il volume ora pubblicato da Olschki (col contributo del Dipartimento di Filologia classica e italianistica dell’Università di Bologna) esamina gli aspetti biografici, linguistici, filologici, storici e stilistici del breve scambio epistolare tra Giacomo Leopardi e Carlo Pepoli, con pari attenzione a entrambi, attraverso ampi saggi introduttivi dei due curatori, Andrea Campana (sul profilo politico e letterario di Pepoli e sulle caratteristiche del loro carteggio) e Pantaleo Palmieri (sul soggiorno bolognese di Leopardi e sul ruolo di Pepoli come editore delle lettere di Leopardi).
Sono 22 lettere (8 di Leopardi, 14 di Pepoli), disposte sull’arco di 7 anni, dal 1826 al 1832: non molte (perché negli anni bolognesi di Leopardi i due si frequentavano quasi quotidianamente), ma capaci di ricostruire l’ambiente culturale della Bologna dell’epoca, «città quietissima, allegrissima, ospitalissima» (come Giacomo scrive in una lettera a Monaldo del 2 luglio 1825), patria del classicismo liberale, che accolse amichevolmente Leopardi dal 1825 e al 1826 e ancora nel 1827 da febbraio a giugno. «Ho contratto più amicizie in nove giorni che a Roma in cinque mesi», scrive al fratello Carlo. Qui Leopardi sperimenta una pienezza di vita che non ha riscontrato altrove.
Le lettere sono preziose per ricostruire un’amicizia (nata all’ombra di Giordani) di due coetanei che avevano in comune i natali aristocratici (entrambi con titolo comitale e diritto di primogenitura, ma in difficoltà economiche), un’analoga formazione culturale, l’amore per i classici e la passione per la poesia. I caratteri erano però diversi: espansivo e impetuoso Pepoli, riservato e riflessivo Leopardi. Molto diverse anche le visioni ideologiche: ben poco fiducioso nelle «magnifiche sorti e progressive» dell’umanità Leopardi e per questo col passare degli anni sempre più tendente all’isolamento, fattivamente impegnato sul piano civile e politico Pepoli.
La corrispondenza tra Leopardi e Pepoli testimonia amicizia e stima reciproca, anche se in alcune lettere ad altri destinatari Leopardi manifesta in realtà un apprezzamento più tiepido della produzione di Pepoli. In seguito Pepoli prenderà le distanze da Leopardi, non condividendone la svolta pessimistica che eclissava il sentimento patriottico ed era inconciliabile con la sua fiducia nel progresso del genere umano. Si legge in un necrologio scritto all’indomani della morte di quest’ultimo: «Per Carlo Pepoli la filosofia non aveva altro obietto che il bene dell’umanità; le arti e le lettere non avevano altro fine che la grandezza e l’unità della patria». Assai diverse le prospettive ideologiche dell’ultimo Leopardi.