A Gertrude nessuno ci aveva mai pensato prima. Abbiamo avuto l’Ambleto, il
Macbetto (dalla “Trilogia degli Scarrozzanti” di Testori), persino un’Hamletelia (la gotica ed ectoplasmatica Ofelia di Caroline Pagani), ma lei, la regina madre, a differenza degli altri imperituri personaggi del genio di Stratford upon Avon, non era riuscita a solleticare la creatività dei nostri scrittori al punto da spingerli a dedicarle un’opera che la estrapolasse dall’ineluttabile tragedia originaria, l’Amleto di Shakespeare ovviamente, e la liberasse dalla gabbia delle sue ambigue battute per darle l’opportunità se non di rivivere perlomeno di aleggiare fantasmagoricamente di nuovo sul palcoscenico. A colmare questa lacuna ci ha pensato il poeta Davide Rondoni, non nuovo a incursioni nel teatro, ma che in questo caso fa confluire i suoi impetuosi versi all’interno di un monologo che cattura dall’inizio alla fine. Il merito è indubbiamente anche dell’interpretazione ardita e vibrante di Laura Piazza che, dopo un iniziale accademismo, liberatasi dall’ipnotico e rischioso fascino dell’esercizio di stile, riesce a “ballare” sui
blank verse, sui versi sciolti del poeta e a tradurli con una duttilità caleidoscopica. Se poi si aggiunge una regia ricca, forse anche troppo, di brillanti idee (ma Filippo Renda è giovanissimo e avrà tutto il tempo per affinare l’arte della sottrazione) non sovrapposte ma al servizio dello sviluppo testuale, allora il risultato è un’ora di teatro avvincente. Il titolo di questo flusso di coscienza (in prima nazionale fino a sabato al Teatro Santa Chiara di Brescia e prodotto dal Centro Teatrale Bresciano) merita un paio di riflessioni:
Ghertruda la mamma di A.; c’è qualcosa di visceralmente affettuoso nella scelta lessicale del termine “mamma” e infatti la Gertrude secondo le visioni di Rondoni si agita, inveisce, si contraddice, ma ha un punto fermo nel suo lacerante e rutilante univer- so: l’amore di una “mater dolorosa e lacrimosa” per il “figlio-giglio”. C’è poi quella “A.”, certo l’iniziale di Amleto, ma come non pensare alla “lettera scarlatta” cucita addosso all’adultera di Nathaniel Hawthorne? Significativa anche la ripetizione ossessiva nel testo della parola “rovina” declinata in forma attributiva, verbale e avverbiale. È il crollo, il fallimento identitario, la perdita del proprio “sé”, infatti, il principio fondante di tutto il racconto-confessione che Ghertruda fa rivolgendosi a noi spettatori chiamati direttamente a giudicare o a rispecchiarci nelle sue angosce. In una scena senza quinte, con lo scopo di svelare il meccanismo teatrale, con una vetrata che incombe dall’alto (al di là della quale si proiettano immagini di amorfi fluidi neri, inquietante danza macabra degli altri defunti del castello di Elsinore), la regina di Danimarca tenta dapprima di proporsi come improbabile eroina, agnello sacrificale che beve consapevolmente la coppa avvelenata per non assistere alla morte del figlio e a tutta «quella messinscena patetica, malandata », poi di discolparsi («sono solo la donna che volle essere regale, me lo volete rimproverare?»), non nega la sua voluttà e carnalità («la parola volgare necessaria come aria»), si scaglia contro il fantasma del marito «vendicatore» che «voleva ancora essere re, anche da sepolto», per perdersi alla fine in una frammentazione e contraddizione schizofrenica: «Fui onesta. E depravata… Irreprensibile. E immorale… regina o regale fantasma nel niente universale». Tutta questa agitata evoluzione del personaggio viene cadenzata registicamente con una scelta musicale coerente e coinvolgente che, con i brani psichedelici del gruppo inglese I monster, rende evidente la metamorfosi di Ghertruda. La regina madre, infatti, grazie anche agli immaginifici costumi di Eleonora Rossi (sue anche le scene), come una crisalide si libera dai suoi involucri, si smaschera, si sfoglia fino a giungere al cuore del suo dolore. Le luci disegnate da Cesare Agoni sottolineano senza sbavature questi passaggi e si affidano spesso ad effetti non originali ma sempre opportuni. Ma è innanzitutto il verso di Rondoni che sostiene e corrobora l’interpretazione. E al poeta che confessa: «Ho scritto questo pezzo non so bene perché», viene da suggerire la geniale risposta di Italo Calvino: «La poesia è l’arte di far entrare il mare in un bicchiere». Impresa paradossale in questo caso riuscita.
Pubblichiamo un estratto del monologo Ghertruda la mamma di A., in scena al Teatro Santa Chiara di BresciaFacciamo finire ’sta scenata. Un figlio che finge d’esser demente un secondo marito che finge d’esser innocente un primo marito che addirittura il fantasma si mette a fare. Sempre stato prepotente… M’ero proprio stufata, pensavo che se non la ingollavo anch’io quella perla, quella aranciata o cosa era non ricordo più – si beve così tanto di là o dove è la morte, dietro la vetrata – non ce la finivamo, no. Pensavo così. Ero scema? Sventata? Non ho fermato un bel niente di tutta ’sta nera scenata. Di sembrare tutti qualcosa che non s’era. Di avere tutti la natura di sembrare fatti d’un’altra natura. Finché non apparve quel che “passa la natura”… Il vero teatro. Del male. Io, mio Dio, se ci penso ero l’unica fessa, sincera scema ma leale dicevo quel che mi pareva quel che mi premeva. Non fui la gran moralista, non feci mai la lista dei mali altrui. Sapevo i miei. Ma almeno non fingevo di non averli. Dicevo: figlio mio, non m’accusare – per l’aver cercato io un po’ di calore e di regalità non mi vuoi più amare? Sono la tua mamma. Non ho che te, non conta il resto…