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Letteratura. Gerald Manley Hopkins, il suono della parola apre la poesia alla vita

Alessandro Zaccuri domenica 14 agosto 2022

Il poeta e gesuita inglese Gerald Manley Hopkins

Ogni poeta inventa la sua lingua. Se non lo fa, non è veramente un poeta, ma questo sarebbe un altro discorso. Restiamo sull’invenzione, dunque, che può concentrarsi sul versante del lessico o della sintassi (un esempio celebre, per quanto clamorosamente inavvertito, è la struttura dei Sepolcri foscoliani, modellata sul greco antico). In ogni caso, è l’elemento sonoro a prevalere, ovvero quella che l’antipoetico per eccellenza, Louis-Ferdinand Céline, chiamava la petite musique di ciascun autore. Di solito, un poeta si accontenta di un elemento o due, la musica e la sintassi, o magari il lessico. Solo i più grandi sono capaci di tenere insieme tutto, suono e senso, immagine e costrutto. E Gerard Manley Hopkins è, appunto, uno degli autori maggiori di una tradizione che, come giustamente osservava Giorgio Manganelli in un intervento dei tardi anni Quaranta, risale alle esuberanze del barocco e trova compimento nel secondo Ottocento inglese, quando avviene la fioritura dello stesso Hopkins e degli altri cantori del cattolicesimo insulare.

«C’è nel barocco una trascendenza vastissima, una fermezza singolare, una vertigine volontaria», annotava Manganelli nel testo ora riprodotto in appendice alla nuova edizione delle Poesie di Hopkins (Einaudi, pagine LX+290, euro 17,00; originale inglese a fronte). Focalizzata sul cruciale periodo 1875-1889, la raccolta è curata da Viola Papetti e corrisponde, nella sostanza, alla sezione principale di Dalle foglie della Sibilla (Rizzoli, 1992), il volume che ancora oggi offre la più ampia selezione dei versi e delle prose di Hopkins mai allestita nel nostro Paese.

Non che al poeta (nato anglicano nel 1844 a Stratfort, entrato nella Chiesa di Roma anche grazie alla paternità spirituale del cardinal Newman, ordinato gesuita, docente di letteratura greca a Oxford, morto di febbre tifoide a Dublino nel 1889) siano mancati in Italia traduttori eccellenti, a partire da Eugenio Montale, la cui versione di Pied Beauty, “La bellezza cangiante”, è a più riprese elogiata da Papetti nel vasto repertorio che integra la sua resa delle Poesie. Nondimeno, l’operazione realizzata a suo tempo con Dalle foglie della Sibilla e ora meritoriamente riproposta nella sua essenza da Einaudi rimane un punto fermo nella ricezione nostrana di Hopkins. Perché sarà anche vero che «il traduttore non è in genere un buon critico», come afferma in premessa Papetti, ma è solamente attraverso il negoziato puntuale con il testo di partenza che si riescono a cogliere e a condividere caratteristiche destinate altrimenti a sfuggire o a essere date per implicite. Nel caso di Hopkins, poi, questo corpo a corpo non avviene neppure parola per parola, ma sillaba per sillaba, mediante la ricognizione e la reinvenzione del cosiddetto sprung rhythm.

È, né più né meno, la lingua nuova di Hopkins, impasto insindacabile e istintivo di innovazione metrica e di neologismi iperbolici, alcuni dei quali elaborati dall’autore in sede saggistica. Il più celebre è il fondamentale concetto di inscape, la “forma interiore” della realtà nella quale è possibile riconoscere l’impronta dell’instress, il segno profondo che, per Hopkins, rimanda sempre al mistero della Trinità, dell’Incarnazione e della Risurrezione.

Da qui, dunque, il richiamo al barocco come esempio di smisurata macchina significante dal valore mistico-teologico. Se ne apprezza la «verticalità atroce» (la definizione è ancora di Manganelli) rileggendo il capolavoro riconosciuto di Hopkins, Il naufragio della Deutschland, nel quale il tentativo di ricondurre un tragico fatto di cronaca alle ragioni della teodicea si risolve in duello metafisico con il Dio che dà «pneuma e pane». Così, con una soluzione subito perfetta, Papetti scioglie l’assonanza inglese breath and bread, con la quale si può ben dire che la poesia di Hopkins entri nella sua inesorabile maturità.

E non è un caso che il tema del soffio vivificante ricorra in tante altre composizioni, tra le quali spicca il meraviglioso inno La Beata Vergine paragonata all’aria che respiriamo, nel quale lo sprung rhythm perde ogni residuo di artificio e si fa davvero espressione dell’afflato divino. «Aria selvaggia, aria madre del mondo», esordisce Hopkins invocando «questo necessario, mai esaurito / vitale elemento; / mio più del pane e del vino, / mio pasto a ogni momento». Un’intera teologia della Creazione è riassunta in questi versi dall’andamento incalzante. E un’intera teologia mariana viene scandita in una lingua nuova e antichissima, semplice come il respiro e inesplicabile come la Grazia: «Dico che siamo avvolti / dalla misericordia tutt’attorno / come dall’aria: questa / è Maria, e più per il suo nome».