Mostra. “Gente che va”, l'emigrazione di Gios Bernardi
“Gente che va”, in mostra a Taormina. Imbarchi a Palermo, 1966 / © Gios Bernardi
Sono foto d’altri tempi, ma parlano anche del tempo che viviamo. Perché raccontano un destino che sembra ancora inesorabile oggi nel Sud del nostro Paese (e in maniera diversa e sempre più drammatica nei tanti Sud del mondo). Andare. Partire. Lasciarsi la propria terra alle spalle per andare a cercare un futuro altrove. Gente che va. Ieri, oggi. Anche se sono cambiati i mezzi e i modi. Oggi gli italiani emigrano con i trolley e in aerei low cost. C’è un’andata e tanti ritorni, toccata e fuga. Ieri c’era un’andata, spesso senza ritorno. Un viaggio sofferto, inevitabile, struggente. Perché in «questa terra, che raffredda le mani » il giorno «è come un lungo rammendo per un pane impossibile»: «da questa terra bisogna partire per vivere»: la «crosta del pane» è lontana da qui. Ed ecco l’andare, carico di dolore, ma anche di speranza. «Una storia sporca e pulita, come tutte le storie degli uomini» che Gios Bernardi racconta con immagini piene di umanità in un servizio realizzato fra gli anni Cinquanta e Sessanta – nel Sud e nel Nord dell’Italia, nelle terre di emigrazione ma anche nelle terre di approdo, come Svizzera e Germania – per l’Unaie, l’Unione nazionale associazione di immigrati ed emigrati, poi pubblicato dall’Editoriale Grafica in un volume intitolato Gente che va con i testi del poeta trentino don Mario Bebber.
Nato a Bolzano nel 1923, Bernardi non è un fotografo professionista. È un medico radiologo con la passione per la fotografia, che ha sempre cercato di arrivare «al cuore dell’uomo». Le fotografie di Gente che va, accompagnate dalle semplici ma toccanti parole di Bebber, sono ora esposte a Taormina in una bella mostra intitolata appunto “Gente che va” promossa dal Comune siciliano, nell’ex chiesa del Carmine, aperta fino all’8 aprile e curata da Paola Bernardi con l’allestimento di Manuela Baldracchi. «È la documentazione del paesaggio umano e culturale – dice la figlia del fotografo che sta tentando di ordinare il ricco archivio del padre – in anni decisivi della nostra storia che riflette la sensibilità dell’autore e la sua capacità di cogliere l’essenza della condizione umana fatta di smarrimento ma anche di profondo legame con la terra, di addii e di partenze dolorose, colte spesso negli sguardi sbigottiti delle donne o dei bambini, fatta di immense solitudini ma anche di condivisione di un destino comune».
Nelle immagini, in un bianco e nero “sfumato” dal grigiore di un destino incerto, scorrono i passi di uomini nella nebbia di Erice, le mani segnate di pescatori delle Eolie che intrecciano le reti, i sorrisi spontanei di bambini nelle strade di Palermo, le donne e i saluti prima della “ spartenza” agli imbarchi per le navi delle lunghe tratte transoceaniche o alle stazioni dei treni diretti al Nord o in Europa. Volti semplici che sognano qualcosa di più. «Ho cercato di cogliere la fatica, le speranze, le paure di un intero popolo – dice il radiologo fotografo 96enne (suoi scatti sono pubblicati nel catalogo Frammenti di vita, edito l’anno scorso da Arca, pagine 88, euro 15,00) –. Un lavoro – prosegue – che diventa occasione di riflessione sul nostro passato recente in un momento in cui siamo tenuti a confrontarci con le nuove ondate migratorie che investono il nostro paese, segnato ancora dall’emigrazione dei giovani, ma diventato soprattutto terra di approdo dal Sud del mondo: corsi e ricorsi storici che dovrebbero suggerire una maggiore partecipazione e uno scatto di umanità».
La mostra si chiude con una citazione biblica. Senza tempo. «E quella terra deserta, quella che era devastazione, sarà coltivata; e diranno: questa terra è un giardino di Eden» (Ezechiele, 36). Lo spirito che anima la gente che va.