Agorà

Ruanda. Occhi di bambino sul genocidio

Daniela Pizzagalli mercoledì 8 febbraio 2017

Gaël Faye, autore di “Piccolo paese” (© Chris Schwagga)

Il dolore dei bambini è quello che più ci sconvolge, perché rappresenta l’innocenza stessa dell’umanità che viene tradita nelle sue speranze. Forse anche per questo Piccolo paese (Bompiani, pagine 190, euro 16,00), romanzo d’esordio di Gaël Faye, ha ottenuto un successo folgorante, con quasi mezzo milione di copie vendute solo in Francia, 16 traduzioni in corso, vincitore del Prix Goncourt des Licéens e finalista ai più prestigiosi premi francesi: Goncourt, Renaudot, Fémina, Médicis, Interallié. È la storia dell’undicenne Gaby, nato in Burundi da padre francese e madre ruandese, che vive spensieratamente nel benessere, gioca coi compagni della scuola francese, ma si accorge a poco a poco che la sua felicità è in pericolo. I genitori si separano, e l’incomprensione, la tensione che monta tra loro sembra pervadere tutta la società: s’incominciano a fare distinzioni tra hutu e tutsi, perfino i ragazzi si dividono in bande nemiche, e nel vicino Ruanda esplode la violenza omicida. E il racconto è ancora più sconvolgente perché narrato attraverso le parole e le emozioni di un bambino. Che cosa può provare Gaby che improvvisamente sente alla radio definire “scarafaggi” i tutsi, ai quali appartiene la sua bellissima mamma? Con grande efficacia il romanzo fa capire che la violenza si propaga a partire dalle parole e genera una paura che a poco a poco deformerà il volto della vita quotidiana, fino a farla piombare in un incubo: «Provavo pietà per loro, per me, per la purezza corrotta dalla paura divorante che trasforma tutto in malvagità, in odio, in morte. In lava».

L’autore Gaël Faye, che come il suo protagonista Gaby è nato nell’82 in Burundi da padre francese e madre ruandese, presenterà il libro oggi a Milano alle 18,30 alla Feltrinelli di Piazza Piemonte, esibendosi anche in uno Showcase musicale, perché lui è un affermato rapper, e nelle sue canzoni ama descrivere l’incontro, non sempre facile, tra le sue due culture, per esempio in Pili pili sur un croissant au beurre (“Peperoncino su un cornetto al burro”). «Fin da ragazzo ho coltivato la passione per la scrittura – ci dice Faye – e non soltanto in abbinamento con la musica. Ho scritto racconti, testi teatrali, e dopo il successo di questo primo romanzo sto scrivendone un altro, che sarà molto diverso dal mio vissuto. Invece Piccolo paese, benché la storia di Gaby non coincida esattamente con la mia, rispecchia il desiderio di far riemergere il paradiso perduto della mia infanzia, che si è inabissato in quel vortice di violenza distrut- trice. Era come se volessi gridare all’universo che siamo stati felici».

Lei è arrivato in Francia nel 1995, dopo che il governo del Burundi, temendo il “contagio” col genocidio avvenuto in Ruanda, aveva fatto rimpatriare per precauzione gli stranieri. Come si è sentito?

«Non mi sono sentito spaesato in Francia, perché il Burundi ha mantenuto la cultura della colonizzazione belga e avevo studiato alla scuola francese. Però tutto quello che avevo vissuto mi ha fatto crescere in fretta, ero molto più maturo dei miei coetanei. Eppure da ragazzo non mi ero reso conto fino in fondo di quanto era successo in Ruanda, benché anche nella famiglia di mia madre ci fossero state delle vittime. È stato in seguito, da adulto, che attraverso dei libri ho potuto misurare tutto l’orrore dell’accaduto, e mi sono concretamente impegnato alla causa della giustizia con l’associazione Cpcr, il Collettivo delle parti civili per il Ruanda, che ricerca e persegue i criminali ruandesi che si sono rifugiati in Francia, come è stato fatto in passato per i criminali nazisti. Attualmente ne abbiamo individuati ventitré, e tre sono già stati processati e condannati».

Oggi Gael Faye, ormai trentacinquenne, sposato e con due figli nati in Francia, vive in Ruanda: il richiamo delle radici è stato ineludibile?

«Ho vissuto in Burundi e non conoscevo il Ruanda, la terra di mia madre, perché lei e la maggior parte della sua famiglia erano fuggiti durante la prima ondata di persecuzioni, avvenuta dopo l’indipendenza. La divisione tra Burundi e Ruanda era frutto delle politiche coloniali, così come le distinzioni tra hutu e tutsi, che in realtà erano un unico popolo, con la stessa lingua, la stessa religione. Ho sentito molto forte l’esigenza di riavvicinarmi alla terra delle mie origini, e di constatare di persona la realtà attuale. Qui vivo una vita tranquilla, a contatto con la natura, in questa meravigliosa regione dei Grandi Laghi. Scrivo, mi occupo della mia famiglia. Questa scelta di vita non significa che io privilegi la mia parte africana: mi sento altrettanto ruandese che francese, ed è lo stesso per mia moglie e per i miei figli».

Nel Ruanda pacificato, sono state superate le devastanti distinzioni tra hutu e tutsi?

«Per legge non esistono più questi nomi. Si può parlare solo di un popolo ruandese. Certamente queste distinzioni sono state interiorizzate e credo che ci vorranno generazioni perché venga riparato l’irreparabile. Però oggi si è resa possibile la coabitazione, la collaborazione. Con l’attuale presidente non si è ancora raggiunta una vera stabilità politica, ma sono convinto che ci siano i presupposti per un futuro più democratico».