Memorie. La strada oltre l'odio di Gemma Calabresi Milite
L'incontro della vedova Gemma Calabresi con la vedova Licia Pinelli al Quirinale nel 2009
Leggi La crepa e la luce, il libro autobiografico di Gemma Calabresi Milite appena uscito per Mondadori (pagine 144, euro 17,50) e tutto penseresti di trovarci meno che il piano segretamente coltivato, sin nei dettagli, dalla vedova del commissario Luigi Calabresi per vendicare l’assassinio del marito. Entrata nel giro giusto, quando una sera a cena qualcuno si sarebbe vantato di averlo ucciso lui, Calabresi, «avrei allungato piano una mano verso la borsa come se mi fosse improvvisamente venuta molta voglia di fumare, ma invece delle sigarette avrei preso una pistola. E gli avrei sparato». Sapevamo del suo perdono, concesso a caldo, senza neanche conoscere gli assassini (gli anni di piombo erano appena all’inizio, quanto sangue si poteva ancora evitare) ma ora scopriamo che nella sua testa ha continuato a frullare l’idea di farsi giustizia da sé, per porre rimedio all’immane ingiustizia che don Sandro, il prete che li aveva sposati, aveva trovato il coraggio per primo di comunicarle, a casa, dicendole dell’omicidio appena avvenuto. Crollata sul divano, ritrovatasi vedova con due figli piccoli e un altro in grembo, «a un certo punto sentii una sensazione fisica di immensa pace... Sono certa che su quel divano, nel momento più basso della mia vita, nella solitudine e nella disperazione ho incontrato Dio», racconta oggi Gemma. E così, «io, una ragazza di 25 anni a cui avevano appena ammazzato il marito, strinsi le mani di don Sandro e mormorai: 'Diciamo un’Ave Maria per la famiglia dell’assassino'». Poi il necrologio, pensato da sua madre: «Padre, perdona loro che non sanno quello che fanno», le parole di Gesù in croce. «Qualcuno avrà pensato che fossi un’ingenua... Ma io non me ne sono mai pentita». Perché il perdono, declassato un po’ come la pace al rango di utopia più o meno cattolica, si prende la rivincita nel tempo, emergendo in tutta la sua ragionevole lungimiranza. Con l’altra strada, la vendetta, che si rivela per quello che è: una pazzia, come la guerra. Ci è arrivato, da laico, anche Indro Montanelli a perdonare chi aveva tentato di ucciderlo e si era pentito. Ma anche il perdono 'preventivo' della vedova Calabresi troverà alla fine i destinatari. Sarà don Alberto Zanini – giovane sacerdote di Monterosso, nello Spezzino, poi scomparso prematuramente – ad aprire il cuore di Leonardo Marino, autista del commando omicida, prendendosi cura dei suoi figli, al tempo nemmeno battezzati, facendo germogliare dopo 16 anni il seme che Gemma aveva messo nel terreno. Marino confessa, nell’aula del tribunale compaiono anche gli altri responsabili. Uno di loro da dietro le sbarre si rivolge al figlio fra il pubblico e gli dice di non stare lì. «Io avrei fatto lo stesso», riflette Gemma. «Dev’esser un buon padre. Che diritto avevo io, allora, di relegare i responsabili della morte di mio marito a quell’unico ruolo, a quell’unico istante della loro esistenza?», si chiede. Non è stata un’assicurazione sulla vita, questo perdono, ma l’inizio di un lungo cammino. A un certo punto è venuta anche la pubblica riappacificazione con Licia Pinelli, vedova del ferroviere anarchico della cui morte Calabresi fu ingiustamente accusato. «Peccato non averlo fatto prima», le sussurrò Licia nel maggio 2009, invitate entrambe da Napolitano al Quirinale nel Giorno della memoria per le vittime del terrorismo. In tanti lo hanno ucciso Calabresi, prima e dopo la sua morte, indicandolo come colpevole di un delitto mai commesso, qualcuno persino fra gli amici di famiglia. E leggendo questo libro viene da chiedersi: ma quanto ha sofferto questa donna? La stessa firma (Gemma Calabresi Milite) include due cognomi, trascurando Capra che è il suo, a ricordare che anche il secondo marito, l’artista Tonino Milite, è scomparso presto, per un brutto male: «Nella mia vita non mi sono mai arrabbiata con Dio, ma quando è morto Tonino l’ho fatto», rivela, per averle tolto anche l’uomo con cui si era rifatta una vita, e le aveva dato un quarto figlio, Uber. Un nuovo episodio, nell’estate 2017: un mancamento mentre è in vacanza in montagna, e una brutta caduta che, battendo la testa, le provoca un’emorragia cerebrale. Dopo un delicato intervento chirurgico si ritrova con 46 punti in testa, ma guarita: «Ho ricominciato a vivere davvero quando sono quasi morta», ora dice. Un «tempo supplementare che non andava sprecato». Ci mancava solo il Covid ma, ammalatasi nell’inverno 2020, è passato anche quello. E ora questo libro. Per dire che «l’ho amata così tanto questa vita». Tanto dolore, eppure «non la cambierei con nessun’altra. Se non fosse accaduta questa tragedia non avrei iniziato il mio cammino di fede e umanità, e sarei una persona peggiore»