Napoli. Gemito, lo scultore degli scugnizzi
«Pochi sono gli artisti che anche nei tempi andati siano giunti a tale profondità». Così scriveva Giorgio De Chirico di Vincenzo Gemito, di cui s’è aperta a Napoli una mostra di oltre 90 opere tra disegni, sculture in bronzo, marmo e terracotta. La mostra nasce dalla recente acquisizione di un cospicuo corpus gemitiano, 372 opere della collezione di Achille Minozzi, ingegnere e imprenditore partenopeo appassionato d’arte e promotore di salotti letterari, che fu amico e principale collezionista del maestro.
Minozzi aveva costituito nella sua abitazione in via Caracciolo un piccolo museo che i discendenti apersero di tanto in tanto persino al pubblico. La mostra napoletana, promossa dalla Soprintendenza e curata da Fernanda Capobianco e Mariaserena Mormone con catalogo Arte’m, allestita al terzo piano del celebre palazzo con l’intento di integrare in futuro la sezione ottocentesca, è interessantissima non tanto per la presenza di sculture notissime, tra cui i busti di Verdi e Morelli, entrambi del 1873, e di Mariano Fortuny, dell’anno successivo, e le pregevolissime testine di Matilde Duffaud, quanto per i tanti disegni, in genere piccoli schizzi, prove, pensieri realizzati a penna, a matita e ad inchiostro, sovente su fogli di riuso – un vero e proprio «diario su carta» –, che ripercorrono l’intero arco dell’esperienza artistica del maestro napoletano e costituiscono nel complesso un documento eccezionale.
Gemito fu – come è noto – uomo eccentrico, d’umore instabile. Durante le crisi di nervi distruggeva i lavori poco convincenti e soprattutto i bozzetti e le carte. Per converso era prolificissimo, lavorava di continuo e proprio e soprattutto i disegni testimoniano il suo genio, quel cogliere con miracolosa immediatezza una fisionomia e leggerla dentro, catturandone l’anima. Del resto l’artista fu personalità autonoma nel quadro della scultura italiana della seconda metà dell’Ottocento. Apparentemente distaccato dalle più avanzate ricerche europee, Gemito si tenne nel solco realista, recuperando la memoria della scultura alessandrina, studiata e amata fin da bambino nelle sale del Museo Nazionale napoletano.
Ma sarebbe un errore pensare che il maestro non fosse avveduto della modernità. Sono proprio i fogli a svelarlo. Intanto, come s’è accennato, in essi si legge una straordinaria capacità di penetrazione psicologica: un dono che non era semplicemente interpretativo, ma derivava da una lettura profonda del contesto da cui l’artista traeva i principali modelli. La sua predilezione era per la gente umile, di cui sottolineava l’espressività passionale e partecipativa. Nei disegni ciò si traduce in un segno mobilissimo, che sebbene ricomposto in una forma classica conserva la densità dell’emozione.
Anche la genesi delle opere è interessante. Il busto verdiano ad esempio nasce d’impulso dopo vari tentativi, avendo scorto una volta il musicista chino sul piano a provare le note dell’Aida. Gemito restò folgorato dallo sguardo ispirato e introverso del musicista, dalla sua raccolta e sofferta postura. E sono i disegni a rivelare, più ancora del busto, il segreto dell’opera.
Così colpiscono gli schizzi del famoso Pescatore, le successive prove, o la Testa di Anna, quel volto bellissimo dagli occhi grandi e quasi straniti; colpiscono i disegni di mani e piedi, che vibrano di interiore energia, non sono solo esercizi di composizione formale, ma prove di sintesi simbolica; colpiscono gli stessi lavori di chiara impronta alessandrina, come Il Filosofo, La Psiche e Narciso, che testimoniano del continuo dialogo di Gemito con l’arte classica.
Si leggono con questo spirito i numerosi bozzetti di fanciulli, una costante nell’arte di Gemito. Fanciulli che poi erano gli scugnizzi dei quartieri, i «pescatorielli», gli acquaioli, gli acrobati, di cui l’artista fu insuperabile narratore. In essi rifletteva la sua stessa storia: nacque da ignoti e fu affidato in fasce alla Ruota dell’Annunziata e crebbe tra la gente dei quartieri, ebbro di luce ma anche con lo sguardo segnato da un’inguaribile, drammatica malinconia.