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Letteratura. Selma Dabbagh: «Dentro Gaza: il calvario di due fratelli»

Riccardo Michelucci mercoledì 20 dicembre 2017

Selma Dabbagh

In uno dei suoi versi più famosi, il poeta Mahmoud Darwish scrisse che il tempo, a Gaza, «non porta i bambini dall’infanzia immediatamente alla vecchiaia, ma li rende uomini al primo incontro con il nemico», e che «l’unico valore di chi vive sotto occupazione è il grado di resistenza all’occupante». Sembra prendere avvio proprio da queste parole il romanzo d’esordio della scrittrice anglo-palestinese Selma Dabbagh, Fuori da Gaza, appena pubblicato in italiano dall’editore Il Sirente, con la traduzione di Barbara Benini. Un’opera prima che si avventura in uno dei terreni ancora inesplorati dalla letteratura contemporanea, andando a indagare l’animo più profondo della gioventù palestinese al tempo della Seconda Intifada.

La narrazione ruota attorno alla storia dei Mujahed, una famiglia medio borghese, colta e benestante, la cui casa si ritrova all’improvviso in mezzo alle macerie del quartiere distrutto dalle incursioni israeliane. «Avevano demolito ogni struttura del vicinato, strappandola dalle radici, scavandone le fondamenta. I soldati, sui loro bulldozer gialli, si erano divertiti a inseguire i nuovi senzatetto in quella confusione. Gli alberi avevano continuato a bruciare per giorni». Iman e Rashid sono due fratelli gemelli di 17 anni che hanno vissuto gran parte della loro vita all’estero e adesso si ritrovano psicologicamente intrappolati nella Striscia. Rashid osserva Gaza attraverso le immagini del satellite, e sogna di andarsene. Dall’alto gli appare come «un corallo essiccato, increspato, compartimentato e sabbioso», con «centi- naia di migliaia di abitazioni ridotte a graffi su un osso». Dall’altra parte, quella ormai vietata ai palestinesi, c’è invece «un’elaborata coperta dal design modernista. [...] Quella parte scintillava. Pannelli solari e piscine luccicavano al sole».


È lo stesso contrasto evidenziato dalla giornalista israeliana Amira Haas quando definì Gaza «la contraddizione dello Stato d’Israele, democrazia per alcuni, esproprio per altri». E Dabbagh sceglie di indagare proprio il significato intimo di quel nervo scoperto nella vita di tutti i giorni. Ambientato tra Gaza e Londra, il suo romanzo segue le vite di Rashid e Iman nel loro tentativo di costruirsi un futuro in mezzo all’occupazione, al fondamentalismo religioso e alle varie fazioni politiche. Il padre dei due giovani è un ex esponente dell’Olp, vive in esilio e non comprende le ragioni degli islamici, «non aveva mai avuto tempo per la religione e non vedeva alcuna ragione per cambiare: a tutti loro, Dio aveva a mala pena rivolto un sorriso ».

La madre ha un passato segreto nei movimenti di lotta per la liberazione della Palestina e vive invece a Gaza, accudendo il primogenito, Sabri, costretto su una sedia a rotelle dopo aver perso le gambe in un attentato. I due gemelli provengono da un background privilegiato, sono profondamente legati eppure diversi, e le loro strade sembrano dividersi fin dall’inizio del libro. Proprio mentre Iman viene chiamata dall’ala islamica del centro culturale di cui è attivista – e che le propone di farsi esplodere in un attentato suicida – Rashid viene a sapere di aver vinto una borsa di studio a Londra e trova, almeno apparentemente, la sua via di fuga.

«Non volevo raccontare soltanto il dilemma di una generazione di palestinesi, tra chi vuole restare per lottare e chi invece ha la possibilità di fuggire per inseguire i propri sogni – ci spiega Dabbagh – ma descrivere il punto di rottura, il momento non ritorno di ciascun individuo, in termini di scelta morale. Quella sensazione di sentirsi tagliati fuori dalla storia, qualcosa che persino molti palestinesi che vivono sotto occupazione danno per scontata». Oltre al desiderio dei due fratelli di uscire dalla soffocante condizione di vita della Striscia di Gaza, c’è infatti anche il tentativo di evadere dal loro passato, il senso di straniamento che provano all’interno del nuovo contesto in cui cercano di ambientarsi. Anche la famiglia della scrittrice ha un passato segnato dall’esilio e dalla politica. Suo nonno fu imprigionato dai britannici per le sue idee e decise di abbandonare Jaffa quando suo padre, bambino, rischiò di rimanere ucciso da una granata lanciata dai paramilitari sionisti. Trovarono rifugio in Siria per poi trasferirsi in altre parti del mondo. Selma Dabbagh è nata in Scozia nel 1970 e ha vissuto in Arabia Saudita, Kuwait, Francia e Bahrein, lavorando come avvocato per i diritti umani a Gerusalemme, Il Cairo e Londra.

Ciononostante, assicura che la sua storia personale non ha influito nella vicenda raccontata nel libro: «Non c’è niente di autobiografico nel romanzo e io non ho mai vissuto a Gaza. Certo, sono stata impegnata politicamente e la mia famiglia è sempre rimasta legata al dramma palestinese, ma forse ha inciso di più il confronto con le persone che ho incontrato durante la mia attività di avvocato».

La storia di Rashid e Iman è l’espediente narrativo attraverso il quale Dabbagh riesce a ricostruire le molteplici sfaccettature di una società complessa, a indagare i conflitti interiori e il modo in cui la guerra, la violenza e il fondamentalismo religioso influiscono sull’intimità delle persone. A raccontare non solo l’assedio dei territori ma anche quello delle coscienze, con una scrittura che – proprio come sarebbe piaciuto a Darwish – fa parlare Gaza «attraverso il sangue, il sudore, le fiamme». Il pubblico, anche in Palestina, pare aver accolto il romanzo positivamente: «La gente si è riconosciuta nel libro – conclude Dabbagh –, trovarsi in un’opera di finzione letteraria è stato per loro un modo per sentirsi vivi, per essere ascoltati. Era la cosa cui tenevo di più e infatti ho cercato in tutti i modi di rappresentare quella realtà terribile nel modo più fedele possibile». E per due anni consecutivi il “Guardian” lo ha definito libro dell’anno.