Musica. Gatti bacchetta i suoi neodirettori
Il direttore d’orchestra Daniele Gatti: dal 2016 insegna l’arte del podio all’Accademia musicale Chigiana di Siena
«Direttori d’orchestra si nasce». E per spiegartelo Daniele Gatti usa un’immagine, evocativa e impregnata di vita. L’immagine dell’inquietudine. «A un certo punto, verso i quindici anni, senti dentro qualcosa che ti rode, un’inquietudine, appunto, che non si placa, ma anzi cresce di giorno in giorno perché avverti forte il bisogno di avere il tuo strumento, l’orchestra, perché con altri strumenti non riesci ad esprimerti». Eppure Daniele Gatti, direttore d’orchestra, da poco eletto dai musicisti della Staatskapelle di Dresda come loro prossima guida a partire dal 2024, in questi giorni sta provando ad insegnarlo, questo mestiere. Che, avverte il musicista milanese, classe 1961, «io non vivo come una carriera: è la mia professione che risponde alla mia vocazione, quella che da ragazzo i miei genitori mi hanno aiutato a scoprire e coltivare». Perché, appunto, «direttori d’orchestra si nasce». In questi giorni, come fa ogni estate dal 2016, Gatti insegna la professione del podio ai giovani allievi dell’Accademia musicale Chigiana di Siena. Stasera, al Teatro dei Rinnovati, il concerto finale del corso di direzione d’orchestra di Gatti. «Dal 25 luglio abbiamo lavorato sul Signor Bruschino di Rossini, poi è toccato a Mozart, Brahms, Schumann e Mahler. E stasera passo la bacchetta ai ragazzi».
Ma se direttori si nasce, Daniele Gatti, quale il suo compito di docente?
Quello di aiutare i ragazzi a dare voce a questa necessità interiore. Una scuola serve a farti tirare fuori ciò che hai dentro, ma anche a farti prendere coscienza e capire se davvero questo mestiere è per te: se i presupposti non ci sono occorre avere l’onestà di dirlo ai ragazzi. Noi abbiamo il compito di seguire gli allievi, ma anche di difendere la nostra professione dal pressapochismo e dalla superficialità con cui a volte viene giudicata.
Perché la scelta di dedicarsi all’insegnamento?
Insegnavo già a 25 anni, quando ero ancora studente in Conservatorio a Milano. Era il 1987, l’anno del diploma, Piero Guarino, direttore del Conservatorio di Parma, non poteva più tenere la classe di direzione così, su segnalazione di Marcello Abbado, mi chiamò. Ho insegnato a Parma per tre anni poi sono approdato a Milano. L’insegnamento mi serve anche per capire meglio quello che sto facendo come direttore: più sono chiaro con gli altri e più si chiariscono le cose per me. Negli anni in cui ero alla guida di Santa Cecilia a Roma ho istituito un master per giovani direttori: seguivano tutte le prove dei miei concerti, mangiavamo insieme, parlavamo di musica. Le mie prove, poi, sono sempre aperte per i giovani musicisti.
Ora c’è Siena. La scorsa settimana Rossini e l’opera, stasera la musica sinfonica.
Ho sempre lavorato sul repertorio sinfonico. Nel 2020, l’anno della pandemia, ho proposto di collaborare con la classe di canto di William Matteuzzi: abbiamo fatto La serva padrona di Pergolesi poi ci siamo buttati sulle farse rossiniane, lo scorso anno L’occasione fa il ladro e quest’anno Il signor Bruschino con la regia di Lorenzo Mariani. Mi piace affiancare la lirica alla sinfonica per spiegare che lavorare con le voci non è così rigido come lavorare solo con l’orchestra, ma anche per far cimentare i ragazzi con i diversi generi che affronteranno nella loro professione.
Una scuola fatta in aula o il mestiere lo si impara sul campo?
La nostra aula è la sala prove perché è in orchestra che capisci la relazione tra gestualità, creazione del suono e interpretazione. È lì che sperimenti se chi hai davanti riesce a leggere il tuo gesto come lettere che formano parole che dicono in che direzione andare. Ma l’aula di studio diventa anche il palcoscenico durante il concerto perché non si smette mai di imparare: se una sera non riesco ad ottenere il suono che voglio con un gesto, la sera successiva cerco un’altra via. Ecco perché dico ai ragazzi di provare sempre a migliorarsi. Un lavoro che faccio prima di tutto su me stesso. Ad esempio. Io ho diverse bacchette a seconda degli autori che dirigo perché ho bisogno di sentire il peso del suono sul braccio. Con una bacchetta da 43 centimetri sento il suono sugli ultimi 10 e uso il polso e non la spalla per ottenere un suono trasparente e agile che va bene per Mozart e Beethoven. Quando invece ho sul leggio Bruckner, Wagner e Brahms accorcio la bacchetta a 35-37 centimetri perché ho bisogno di impastare il suono e coinvolgere tutto il braccio.
Quello di direttore è un mestiere che si può “rubare”?
«Certo, chi non lo ha fatto? Da ragazzo sei conquistato da un particolare maestro, ti convince la sua plasticità e in qualche modo assorbi il suo stile. Poi a un certo punto ti togli questo abito, devi farlo se vuoi evitare il rischio di essere per tutta la vita la copia di qualcuno – e ahimé esempi ce ne sono parecchi anche oggi.
Quali i consigli che dà ai ragazzi per evitare questo?
Continuare a studiare, avere sempre sete di conoscere, scavando continuamente nelle pagine che si hanno sul podio. Oggi questo lo fanno in pochi perché nel nostro mondo è facile sedersi e vivere di rendita. Ma il pubblico se ne accorge. Dobbiamo proporre esecuzioni non standardizzate, da cui traspaia la nostra volontà di ricerca. Io cerco di farlo in un percorso che mi porta a ripensare sempre la musica che mi trovo davanti: certo, si può sbagliare, cambiare strada e tornare indietro.
La sua strada dal 2024 la porta a Dresda.
Ho sempre detto: un giorno, prima di smettere, mi piacerebbe guidare un’orchestra tedesca. Dopo Santa Cecilia, la Royal philharmonic di Londra, l’Orchestre national de France e il Concertgebow di Amsterdam è arrivata la Staatskapelle, un’orchestra che è stata nelle mani di Wagner e Weber e che sento essere oggi il guanto che si adatta meglio alla mia mano. La Staatskapelle nomina il suo direttore che affronta il repertorio sinfonico, ma che è benvenuto nel fare l’opera: mi piacerebbe fare il melodramma italiano per togliere certi cliché che incrostano i nostri capolavori quando vengono diretti all’estero.
Lei quando si è accorto di essere “nato” direttore?
La folgorazione è stata a 13 anni, frequentavo il terzo anno di Conservatorio, suonavo il pianoforte, componevo. Una sera sono andato in loggione al Teatro alla Scala a sentire La Cenerentola di Rossini diretta da Claudio Abbado che però, allora non sapevo chi fosse mentre conoscevo Karajan, Mitropulos, Walter attraverso i dischi che portava a casa mio papà e che ascoltavamo insieme la sera. Fu una folgorazione visiva perché rimasi affascinato dal gesto di Abbado, non perché fosse di Abbado, ma perché da quel gesto scaturiva musica. Avevo trovato il mio strumento: mi nascondevo dietro le tende della Sala Verdi del Conservatorio per ascoltare le prove d’orchestra e spiare i direttori, trascrivevo le Invenzioni a tre voci di Bach, componevo partiture che dirigevo con alcuni compagni di studi. Avevo 18 anni quando ho parlato con il parroco della chiesa di Maria Regina Pacis nel quartiere dove abitavo a Milano per proporgli un concerto con un’orchestra formata dai miei compagni di Conservatorio. Era il 3 maggio del 1980 e ho diretto il mio primo concerto davanti ad un pubblico: per me la mia strada di direttore è iniziata quella sera, conto i concerti a partire da quello.
Oggi c’è spazio per un giovane che vuole iniziare questa professione? La possibilità di emergere c’è. Penso a Diego Ceretta, mio allievo per tre anni, che ora raccoglie i frutti di questo lavoro e continua a seminare. Mi rivedo in lui, nel modo in cui affronta determinate cose. Lui come i giovani direttori che si affacciano a questa professione devono, però, cercare di avere come unico ideale il fare bene il prossimo concerto, confermando quello che si è fatto e migliorando ogni volta.