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EDITORIA. Livio Garzanti, gran viziato ma geniale

Massimiliano Castellani domenica 24 novembre 2024

L'editore e scrittore Livio Garzanti (1921-2015): sugli schermi il docufilm "Il gran viziato" diretto da Giacomo Gatti e prodotto da Didi Gnocchi per la 3D Produzioni

Giorni fa, uscendo dall’anteprima milanese del docufilm su Livio Garzanti, Il Gran viziato (anagramma coniato da Roberto Benigni), due sono state le riflessioni a caldo. La prima: c’è stato un tempo in cui gli editori erano intellettuali veri, il cui mestiere non era solo pubblicare e vendere. La seconda è una conferma: l’animo umano è come una terra straniera, non si finisce mai di comprenderlo. Tutto questo emerge dall’universo criptico e crepuscolare di Livio Garzanti, animatore geniale dei talenti letterari del ‘900 che ha lasciato un segno indelebile nella nostra cultura. Ancor più tangibile in questi tempi avari di genialità, editoriali e non, e che va al di là degli orizzonti scaffalati delle librerie. «È stato uno dei padri fondatori del nostro Paese, come quelli americani, tipo Lincoln», la definizione dell’amico Francesco Alberoni, autore che patron Livio lanciò nell’olimpo dei bestseller con Innamoramento e amore, « riempendo di copie cento vetrine sparse per tutta Milano», ricordava divertito il sociologo, morto nel 2023. Il film di Giacomo Gatti (sceneggiato da Matteo Moneta), prodotto da Didi Gnocchi per la 3D, con la voce narrante di Toni Servillo, è un piccolo gioiello del genere doc-biopic, che scava intorno all’anima nebulosa dell’Editore, uomo complesso e complicato che nel finale scopriremo «misantropo generoso, ma non nell’accezione del filantropo», precisa il figlio Eduardo. Un cammino esistenziale minato dalle fobie, figlie di quell’Italia risorta rimboccandosi le maniche dopo la Seconda guerra mondiale. Nel ’43 Garzanti è un 22enne tenente dell’esercito, quando decide di riparare in Svizzera, dove divide la stanza con un altro esule geniale, Giorgio Strehler: una reciproca contaminazione tra due menti così diverse, eppure così vicine. Rimpatriati, avrebbero rispettivamente rivoluzionato l’editoria e il teatro. Due umorali, con in più in Garzanti l’ossessione della morte. La prima volta alla Scala, da bambino, quando si riaccesero le luci, i genitori lo sentirono gridare con spaventata meraviglia: «Ma questo è un cimitero!».

L’origine del malessere risiedeva nel rapporto tormentato con i genitori. Letale fu il confronto con un padre-padrone, l’imprenditore Aldo Garzanti, da cui il 30enne Livio ereditò la casa editrice, nata dalla rilevazione della storica Treves. A fare da contraltare, la relazione simbiotica del figlio unico con la madre, Sofia Ravasi, francesista e grande esperta di Leopardi. Questo interno di famiglia ha minato le certezze di un uomo estremamente vulnerabile, antimondano e cinico, tanto che al suo cospetto due maestri di cinismo come Mario Monicelli e Dino Risi scomparirebbero. E un regista, Pier Paolo Pasolini, è stata la sua maggiore scommessa. Vinta, anche al prezzo di un processo per lo “scandaloso” Ragazzi di vita, libro rimasto un anno e più sulla scrivania di Arnoldo Mondadori e scartato, perché ritenuto “pericoloso” da Giulio Einaudi, nemico giurato di Garzanti. L’intrepido Livio proseguì la sua opera irriverente e bastiancontraria con Il prete bello di Goffredo Parise che scatenò uno scontro tra Dc e Pci. Poi ancora sperimentalismo e narrativa industriale: il Memoriale di Paolo Volponi e Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, dell’irregolarissimo e amato Carlo Emilio Gadda. Furono i pezzi da novanta di un catalogo che a fine anni ’60 pose Garzanti sul trono degli editori italiani. Ma gli scrittori a un certo punto lo annoiarono. Così virò sulla divulgazione scientifica. Da Diderot del XX secolo, ebbe un successo senza precedenti con le Garzantine e i volumi dell’Enciclopedia Europea per i quali convocò premi Nobel e il meglio dell’intellighenzia nostrana e universale. Intuizioni di un kantiano - era laureato in Filosofia con Antonio Banfi - che però sopra il suo cielo stellato pose la morale di Zarathustra: «Bisogna avere il caos dentro per partorire una stella danzante».

Al maestro dell’illustrazione Tullio Pericoli chiese di affrescare la sala della storica sede di via della Spiga, salvo poi pretendere che alle tinte troppo accese sostituisse tonalità più sobrie. Minimalismo da uomo parco, che si concedeva il solo sfizio dei bolidi a quattro ruote. Mentre a cena consumava una minestrina e due zucchine nella dimora milanese di piazza del Carmine, a fianco alla chiesa omonima, dove da ateo convinto si compiaceva che fino al ‘600 si praticassero esorcismi. Dei suoi demoni lui non riuscì mai a liberarsi, anche se una parvenza di pacificazione la trovò nell’aiutare gli altri. Ecco allora il finale a sorpresa de Il gran viziato. Una spiccata attenzione per i malati terminali seguiti dalla Vidas del presidente Ferruccio De Bortoli, i rifugiati del Naga, gli ospedali di Gino Strada e il legame con don Luigi Ciotti, il quale riconoscente confessa: «Livio ha dato una grande mano al Gruppo Abele». Circa 90 milioni ha destinato a enti benefici. Un bene fatto in silenzio, fino all’ultimo (se ne è andato nel 2015) fedele alla lezione proustiana. A margine dell’amata Recherche annotava: «La pretenziosità è una brutta bestia, la semplicità è un gusto un po’ nascosto, ma gradevole».