L'attore. Massimiliano Gallo: la mia dinastia che canta Napoli
Massimiliano Gallo, 49 anni, dà voce al boss ’o Re in “Gatta Cenerentola” ed è a teatro con “Il sindaco del Rione Sanità”
«Mi fa ridere e arrabbiare chi non conosce Napoli e ne vuole parlare. Napoli nel momento in cui cerchi di collocarla l’hai già persa. Ha ragione Pino Daniele: “Napule è mille culure”. È Gomorra, è I bastardi di Pizzofalcone, ma è anche il San Carlo, è il centro per la ricerca, è le eccellenze nella magistratura e nella medicina. Ed è anche un piccolo “miracolo” dell’animazione come Gatta Cenerentola». Parola dell’attore Massimiliano Gallo che nel cartoon candidato a 7 David di Donatello dà graffiante voce al crudele ’o Re, un bieco camorrista dall’ugola d’oro. D’altronde Massimiliano, come il fratello Gianfranco attore, cantante e drammaturgo, ha ricevuto in eredità un talento innato dal padre, il grande cantante Nunzio Gallo, che negli anni 50 trionfava con Mamma e Corde della mia chitarra, scomparso il 22 febbraio di 10 anni fa. Per Massimiliano Gallo, alla soglia dei 50 anni, questo è il momento del lancio. Dopo il successo della fiction Sirene di Rai 1, sta girando la seconda serie de I bastardi di Pizzofalcone, è applaudito a teatro ne Il sindaco del Rione Sanità con la regia di Mario Martone che sarà a Napoli e Roma, mentre il 22 marzo sarà nelle sale con Una festa esagerata di Vincenzo Salemme. Ma, soprattutto, Gallo è stato protagonista all’ultimo Festival di Venezia di tre importanti lavori. È il padre di Paolo Letizia, vittima di lupara bianca in Nato a Casal di Principe di Bruno Olivero in uscita il 22 marzo, è malato di leucemia a causa della terra dei fuochi nel film verità Veleno di Diego Olivares, ed è boss in Gatta Cenerentolaversione cartoon (diretto da Alessandro Rak, Ivan Cappiello, Marino Guarnieri e Dario Sansone, ispirato a Basile e De Simone).
“Gatta Cenerentola” è stata anche a un passo dall’essere nominata ai prossimi Oscar...
«Gatta Cenerentola è un film coraggioso e indipendente. Noi attori/cantanti abbiamo messo la voce e poi hanno costruito i personaggi su di noi. Un prodotto che mostra la vitalità culturale della Napoli di oggi, l’unica città che ha saputo reagire culturalmente alla crisi del Paese».
Il male in questa favola cupa alla fine pare sconfitto, non così nel bel film “Veleno” in cui lei interpreta in modo toccante un contadino malato del casertano.
«Mi lasci dire che sono un po’ deluso che un film così importante non abbia avuto alcuna nomination ai David di Donatello. Il problema è, come hanno detto anche Ficarra e Picone, che il meccanismo dei David non funziona ed è da rivedere. Nessuno riesce a vedere i 120 film in concorso, al massimo i giurati ne vedono una decina così si vota per passaparola, per voto d’amicizia e girano sempre i soliti nomi. Veleno racconta la storia del cognato del nostro produttore, uno delle tante, troppe ignote vittime della morsa delle ecomafie. Si chiamava Arcangelo Pagano, era un contadino che produceva eccellenze agroalimentari nella sua terra assediata dalle discariche abusive, ed è morto per un carcinoma allo stomaco».
Si parla molto dell’immagine che i film danno di Napoli.
«Ciò che succede in Campania è dovuto all’assenza del sistema Paese. Se racconto una realtà negativa non sto parlando male della Campania. Quando ci sono cose così forti e drammatiche non è possibile girare la testa e fare finta di niente. Il cinema deve fare questo, ci mettiamo la faccia e ci auguriamo che lo facciano anche le istituzioni presto. Ma Napoli ha un valore aggiunto: l’umanità. Dobbiamo anche raccontare una Napoli in tutta la sua bellezza. Nella fiction Sirene di Ivan Cotroneo facciamo vedere che esiste anche una città solare, diversa da quella della camorra, della microdelinquenza, della spazzatura».
A teatro con suo fratello Gianfranco lei racconta vizi e virtù della sua terra.
«Al cinema ci fanno fare spesso i cattivi, a tea- tro invece facciamo ridere con le commedie scritte da mio fratello. In Sette vizi napoletani diciamo che a Napoli alcuni vizi li abbiamo adottati come virtù, ci siamo adagiati. Tipo uno che “tiene la cazzimma”, la cattiveria, è uno furbo. Si dice in modo positivo, ma positivo non è. La camorra? Ne parliamo ma non la nominiamo per non farle pubblicità».
Lei ora è in scena anche nel “Sindaco del Rione Sanità” di Eduardo. Lei lo ha mai incontrato da bambino?
«Passavano molti personaggi a casa nostra, ma Eduardo l’ho conosciuto solo nei ricordi di mio padre. Lui partecipò all’ultima regia di Eduardo, nel 1984, Bene mio e core mio con Isa Danieli. Eduardo non poteva sottoporre a un provino un nome come Nunzio Gallo, allora usò una tattica. Lo invitò a casa, si scambiarono molti complimenti e per tre ore parlarono solo di canzone napoletana. Poi Eduardo gli passò il caffé, servendogli una battuta del testo. Mio padre capì e rispose con un’altra battuta del testo. Poi gli disse: “Maestro, ma se volete che vi faccia un provino, lo faccio”. Eduardo rispose: “Non c’è bisogno, ve l’ho già fatto”».
Come era la famiglia di un mito della canzone italiana nel mondo come Nunzio Gallo?
«Io e i miei tre fratelli non ce ne siamo mai resi conto: da bambini abbiamo vissuto una favola e una follia. Papà era fuori da ogni divismo, aveva buttato tutti i premi e in casa non c’era un suo disco. Li stiamo comprando ora tutti su e-bay. Quando morì scoprimmo sepolta in un cassetto una foto di Rita Hayworth con dedica di quando lui ando in tournée in America. Ci faceva racconti sulla Magnani, su Totò. Ha vissuto l’epoca più bella a livello artistico di questo Paese in ricostruzione».
E lei cosa ha appreso nella sua carriera da suo padre, cantante, e da sua madre Bianca Maria Varriale, attrice?
«Per la carriera avuta da papà, mai mi sarei immaginato cantante. Mi ritengo un attore che canta, ho fatto anche il musical con Scugnizzi. Il più grande insegnamento di papà è che non si è mai preso sul serio, è stato sempre stato un artigiano dell’arte, uno che si è ritenuto fortunato di aver fatto della sua passione un lavoro. Io sempre fatto teatro sin da piccolo, mai ho pensato di fare il pompiere o l’ astronauta. Mia madre aveva una compagnia dei piccoli di cui facevo parte, poi lavoravo con la compagnia dei grandi, ma mi permettevano di farlo solo d’estate quando non andavo a scuola, fino alla fine del liceo. Poi mio padre e mia madre mi hanno fatto fare il direttore di scena, per farmi vedere come funziona tutto. Da mamma e papà abbiamo imparato l’amore, ma anche la disciplina di questo lavoro».