Agorà

Ricerca. Galileo e l’acqua lunare che c’è ma non si vede

Flavia Marcacci mercoledì 4 novembre 2020

Galileo Galilei (1564-1642)

Sulla Luna c’è acqua: cosa avrebbe detto Galileo Galilei il 26 ottobre 2020, leggendo questa notizia su “Nature Astronomy”? Notizia riportata in ben due articoli e diffusa dalla Nasa con una certa enfasi, pubblicando i risultati degli studi svolti presso lo Stratospheric observatory for infrared astronomy (Sofia). Sulla superficie lunare illuminata dal Sole c’è acqua, o meglio, ci sono indizi compatibili con la presenza di acqua. I dati sono relativi alla zona del cratere Clavio, uno dei più grandi nell’emisfero meridionale del nostro satellite (quasi 230 km di diametro e 3,5 km di profondità) e rivelano acqua in concentrazioni da 100 a 412 parti per milione (12 once, scrive la Nasa, più o meno una bottiglietta molto piccola) in un volume pari a circa un metro cubo di terreno. Circa un centesimo di quella rintracciabile nelle zone desertiche del Sahara, dunque ben poca, ma in quantità significativa se si pensa che si riteneva che l’acqua potesse essere conservata sotto forma di ghiaccio solo ai poli della Luna. L’astrofisico Paul Hayne (Università del Colorado, Boulder) e il suo gruppo hanno tratto analoghe considerazioni dalle immagini della fotocamera e dalle misurazioni termometriche prese dalla sonda Lunar Reconnaissance Orbiter. Studiando il comportamento delle ombre nei pressi di cavità molto piccole, si è visto che il ghiaccio resterebbe stabile nonostante i picchi di riscaldamento superficiale, a causa dell’aumento esponenziale della sublimazione causata dalle forti escursioni termiche.

I risultati sono stati confortanti e il dubbio che le particelle di ossigeno e idrogeno fossero solo ioni di idrossido (OH, una parte di idrogeno e una di ossigeno) sembra fugato. Restano alcune differenze importanti tra i due studi: ad esempio, le riserve di acqua/ghiaccio sono solo locali o no? In ogni modo, da quando nel 1969 gli astronauti della missione Apollo 11 attestarono un suolo lunare anidro, a oggi, le cose sono cambiate e c’è chi spera che queste riserve di acqua saranno utili per alimentare sonde. E molto altro. Cosa direbbe, oggi, Galileo? Molto probabilmente non ripeterebbe quanto scrisse a Giacomo Muti (lettera del 28 febbraio 1616, in Edizione nazionale, vol. XII, p. 240): «Non credo che il corpo lunare sia composto di terra e di acqua». Scriveva così, lo scienziato pisano a Muti, in risposta alle critiche relative alla scoperta delle montuosità della Luna che gli rivolgeva Alessandro Capoano, frequentatore di personaggi di rilievo. Capoano riteneva che la Luna non avesse monti e valli, perché in tal caso ci sarebbero state zone ricche di piante e animali e probabilmente anche esseri razionali superiori, come accade sulla Terra. Ma non essendovi sulla Luna tutto ciò, allora sulla Luna non ci devono essere neanche monti e valli. Non bisogna dimenticare che l’idea della vita fuori dal nostro pianeta poteva infastidire i teologi a quel tempo. Ma l’argomento era troppo debole e Galileo non cadde in inganno. Le conseguenze supposte, per cui la Luna non avrebbe monti e valli, debbono «non solamente non esser necessarie, ma assolutamente false e impossibili».

Da dove gli proveniva tanta certezza per smentire il ragionamento di Capoano? Da un ragionamento basato sulla posizione reciproca di Sole e Luna e sull’evidenza delle fasi. Il Sole, sul suolo lunare, non garantisce la ciclicità di calore e luce necessaria alla vita, come vediamo sulla Terra. Questo era l’unico argomento certo per dire che sulla Luna non c’è vita, per «le vicissitudini, dependenti dall’illuminazion del Sole». E la presenza di acqua? Il cauto Galileo scriveva di non credere che la Luna fosse fatta degli elementi della Terra... ma anche se fosse, anche se acqua e terra potessero mescolarsi, non ci sarebbero luce e calore sufficienti allo sviluppo della vita. Sulla presenza dell’acqua il telescopio non poteva rivelargli molto di più e la natura degli elementi lunari restava oggetto di pura speculazione. E tale rimarrà a lungo perché i sensi, anche se potenziati dal telescopio, non davano dati utili. Non c’era la spettrografia a fornire aiuti. Non c’erano le sonde spaziali per raccogliere quantità di materiale lunare da riportare sulla Terra. Non c’erano i dati a infrarosso di Sofia. C’erano però dati a sufficienza per star sicuri dell’esistenza di monti e valli, avendone avuto «sensata esperienza per mezzo del telescopio», come dimostrato nel 1610 nel Sidereus nuncius. Le sensate esperienze sono il punto di partenza, per ottenere certezze e per sviluppare ipotesi. Così accade anche oggi. Si osserva, si verifica, si suppone. Guidati da un’ipotesi («So far, evidence for similar ice deposits on the Moon has been inconsistent, despite a strong theoretical basis for their existence…», scrive Hayne), gli astronomi hanno guardato in questo decennio al fondo del suolo lunare ottenendo infine la firma spettrale della molecola d’acqua e convincendosi della presenza di questo elemento. Probabilmente oggi farebbe altrettanto Galileo.