Musica. Gaetano Liguori, il mio jazz sulla via di Damasco
Tutte le strade della musica portano a casa Liguori. Tempo fa, scoprimmo per caso che il batterista Lino Liguori, classe di ferro 1927, è il nipote di Gegè Di Giacomo, – anche lui batterista e anima dell’orchestra di Renato Carosone – ma soprattutto è cotanto padre di un pianista tra i più colti e irregolari del panorama jazzistico italiano, Gaetano Liguori. Nato a Napoli, 71 anni fa, è cresciuto a Milano questo virtuoso del piano che per Skira ha scritto l’autobiografia Confesso che ho suonato. Concerti eseguiti «praticamente in ogni luogo del pianeta», e insegnato, da esegeta di questa sua musica dell’«anima laica» che considera come il ragù. Anzi «per dirla alla Eduardo De Filippo, “O’rraù”», scrive nel suo ultimo libro La mia storia del Jazz ( Jaca Book). Un libro, con cui è in tour per l’Italia, che è un sorta di viaggio, dall’Africa a New Orleans, passando per casa nostra, attraverso la musica «sugosa » che ha permesso a Liguori di far dialogare al pianoforte la sua vera anima, rivoluzionaria, «ispiratami ideologicamente da Che Guevara e poi da Dario Fo che mi aprì le porte dei teatri dove ho potuto diventare un jazzista». È salito sulle barricate del ’68, per poi ridiscendere in piena maturità seguendo la via di Damasco. «La mia non è una conversione vera e propria, resto profondamente laico pur essendo da tempo in cammino su sentieri per niente distanti da quelli battuti da San Paolo », dice serafico Liguori mentre rispolvera dagli scaffali della memoria un totem magistrale come Arrigo Polillo che gli ha aperto altre vie. «Polillo è stato l’uomo che ha portato la cultura del jazz quando da noi ancora nessuno aveva capito cosa fosse questa musica. Lui poteva permettersi di andare a cena con Duke Ellington e dargli del tu, e quei miti della scena americana invitati da Polillo a Milano da ragazzino andavo ad ascoltarli estasiato al Teatro Lirico». Dal loggione, il giovane Liguori si abbeverava alla fonte di Miles Davis e di Charlie Mingus, «tutti mostri sacri con i quali poi ho avuto il privilegio di dividere il palco e la locandina della session ». Il pianoforte è stata la vera folgorazione, e il suo modello, ieri come oggi, rimane Cecyl Taylor, il re del free jazz.
La sua anima è «free», libero perciò di compiere quella che considera la sua ultima «rivoluzione personale».
Un comunista come me che si sta per laureare in Teologia... non è rivoluzionario? – sorride – . Dopo più di cinquant’anni di insegnamento, docente al Conservatorio Giuseppe Verdi di Milano, ho deciso di scendere dalla cattedra e di sedermi in aula da allievo della Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale. Ho sostenuto 70 esami in cinque anni, passando dai Profeti agli Scritti dell’Antico Testamento, dall’Esegesi dei Vangeli fino alla teologia di von Balthasar. Spero di laurearmi il prossimo giugno, intanto questo percorso mi è servito per rispondere alle due do- mande fondamentali a cui ogni uomo non dovrebbe sottrarsi: qual è il senso della vita, e quale quello della morte?
Tra dubbi e risposte, si era avvicinato da tempo al mondo cattolico. Ho cominciato con padre Bartolomeo Sorge che mi volle intervistare per la sua rivista Popoli. Alla fine però fui io che lo interrogavo sul suo impegno in prima linea nella lotta alla mafia in Sicilia. Sotto gli occhi attenti della scorta che gli avevano assegnato parlammo dei miei viaggi solidali in Medio Oriente e dei concerti tenuti in giro per il mondo. I miei racconti incuriosirono anche un altro prete suo amico, padre Guido Bertagna, e lui poi è diventato il mio padre spirituale.
Con padre Bertagna ha vissuto le fervide stagioni del Gruppo San Fedele.
Nel suo centro culturale dibattevamo con altri laici e agnostici di tanti temi, tipo “Il problema della sofferenza e del male”. Nella sala degli incontri c’era un pianoforte a mezza coda, e lì, tra un brano e l’altro, ho cominciato a capire meglio la figura di Gesù e le nostre radici cristiane. Anche se allora intuivo come il rapporto di odio amore fossero un tutt’uno con la storia della Chiesa.
Critico attento, ma anche sempre più affascinato dalla spiritualità.
Avevo letto un libro illuminante, scritto dal barnabita padre Antonio Gentili. In quelle pagine trovai delle conferme, ma emersero anche nuovi dubbi. Cominciai a frequentare le “Settimane del Silenzio” all’eremo di Eupilio, tenute dallo stesso padre Gentili con il quale passavo intere giornate a parlare e a pregare. Nel leggere le parole d’amore di Gesù trovavo una bellezza e una forza straordinaria, accentuate dal silenzio che favoriva la concentrazione per una ricerca spirituale che in quel periodo si è nutrita anche degli scritti di padre David Maria Turoldo.
Padre Turoldo è entrato anche nella sua musica.
Mi commissionarono una operina jazz tratta dal suo libro La Salmodia della speranza, un testo che univa fortemente le mie due passioni: quella per la lotta partigiana antifascista con la ricerca della verità di Dio. Quel concerto è stato un vero evento per Milano, si tenne in Duomo. Il mio jazz nel Duomo rimane un’emozione irripetibile. La mia musica e le parole di padre Turoldo risuonarono poetiche e profetiche alle orecchie degli spettatori.
Liguori, lei passa per il jazzista “amico dei gesuiti”.
Nel mio laicismo imperturbabile considero papa Francesco il “mahatma” di questo terzo millennio, a prescindere dal ruolo che ricopre nella Chiesa. Le sue parole da leader illuminato mi toccano spesso. Resto un vecchio comunista che non è mai insensibile dinanzi a un Papa che si appella continuamente alla pace, all’accoglienza e alla solidarietà...
Ha mai suonato per papa Bergoglio?
Non ancora e mi piacerebbe tantissimo. In compenso ho suonato per il compleanno del cardinal Martini e anche a quello del cardinal Tettamanzi che considero il più fine intenditore di jazz tra i prelati che ho conosciuto. Ma ho tenuto concerti anche per i voti definitivi di tre novizi e per il 50° anniversario dell’Enciclica di papa Giovanni XXIII. Insomma, il mio obolo artistico alla Chiesa penso di averlo donato.
E il cammino sulla via di Damasco continua?
Salgo spesso in Val Gardena per le settimane bibliche in cui continuo ad approfondire il Vangelo. E poi ormai da anni sono di casa all’eremo di Fonte Avellana. Quei monaci nell’incantevole cornice urbinate ragionano da sempre da ecologisti antelitteram. All’Avellana con l’attrice Lucia Vasini ho anche messo in scena la Via Crucis, musica mia su testi del poeta Mario Luzi e una lettura dei Diari di Etty Hillesum. Un altro momento speciale.
All’Avellana era di casa anche il teologo Sergio Quinzio.
Ho ascoltato dalla sua viva voce interrogativi come: «Ora Dio non ci parla da duemila anni, perché ci ha abbandonati? ». Certo, è una teologia pessimista quella di Quinzio, ma allora la trovavo assai affine al mio modo di pensare e di sentire la religione cristiana. Con Quinzio prima e poi con l’attrice Pamela Villoresi, mi sono immerso negli scritti di sant’Agostino e la “mistica” di santa Teresa d’Avila che abbiamo portato in scena.
Ma ora, la “mistica” del suo pianoforte verso quali vie la condurrà?
Il piano è qui che mi guarda... in attesa di ricominciare con il jazz per raccontare la mia vita e quella degli altri, come ho sempre fatto. In un tempo assurdo, malato di intolleranza, vorrei ripartire dal mio ultimo disco, Un pianoforte per i Giusti( Bullrecords). Nelle piazze sento parlare di nazifascismo e di no-vax che si sentono perseguitati come gli ebrei. Assurdo... Fa male vedere un mondo così ferito dal virus e ora addirittura spaccato. Il jazz mi ha insegnato che la musica unisce i popoli, ed è per questo che il mio piano ha bisogno di tornare a farsi ascoltare, da tutti.