Dieci anni dopo, la realtà messa alla provaIl testo che pubblichiamo in questa pagina è uno stralcio della conversazione che Giorgio Gaber ebbe con lo scrittore Luca Doninelli all’interno del ciclo di incontri «L’Officina del racconto» ideato dallo stesso Doninelli e promosso dal Centro culturale di Milano. L’incontro, che si svolse il 14 febbraio 2000, aveva per titolo «La realtà che passione!». Gaber è morto il 1° gennaio 2003 e nell’occasione del decennale della morte, domani sera, lunedì 21 gennaio, il programma «Che tempo che fa» di Fabio Fazio gli dedica una puntata speciale dal titolo «G di Gaber» (ore 21.05 su Rai3). Il repertorio di Gaber sarà riproposto dagli artisti che hanno continuato a divulgare il suo lavoro.
LUCA DONINELLI: «Ho sempre inteso il compito della letteratura, come quello di dare testimonianza: la parola deve farsi carico della realtà quindi non coprire un’assenza ma compiere la fatica di dare il nome all’esperienza, il nome in cui più uomini possano riconoscere la propria esperienza. Una parola chiave di tutta l’opera di Giorgio Gaber è "realtà", la realtà che è passione, una delle sue canzoni più famose.
Chiedo scusa se vi parlo di Maria, dice: "Maria la realtà". Il suo percorso di artista è un percorso singolare segnato ad un certo punto dalla necessità di dare alla parola una consistenza, perché solo se la parola ha una consistenza vi si può riconoscere. Io sono sempre stato colpito, fin da bambino, da questo percorso di Giorgio Gaber (di cui quando ero ragazzino canticchiavo le canzoni) e che a un certo punto ha mutato la direzione del suo lavoro facendo qualcosa d’altro. È impressionante come in una parola che diventa un fatto – perché Gaber ha sempre detto quello che pensa del mondo, della vita, della politica – ci si possa riconoscere anche se non la si pensa esattamente allo stesso modo, perché la questione non è più l’ideologia».
GIORGIO GABER: «È stato un mutamento avvenuto intorno agli anni ’70. Prima facevo questo mestiere in modo direi tradizionale, partecipavo ai festival e facevo dischi. Come tutti i cantanti. Poi ho capito che il teatro valesse la pena di essere frequentato di più, perché dava la possibilità dell’ascolto della parola. È diverso scrivere una canzone per il consumo e scriverla per il teatro: il teatro mi dà la possibilità di una comunicazione nella quale io avverto un senso, una profondità, un’emozione. Mi spiace che questa sera non c’è Luporini che scrive con me. È come se noi operassimo nelle nostre discussioni, nel nostro stare insieme, delle piccole scoperte che ci sembrano decisive, e desideriamo comunicarle al pubblico. La comunicazione quindi diventa la ragione delle nostre indagini, ed è la parola che deve comunicare, e deve comunicare non tanto per distrarre quanto per restituire al pubblico quello che noi abbiamo sentito e che cerchiamo con la maggior precisione possibile, senza nessuna pretesa, che a qualcuno possa servire. Io credo che la parola abbia un forte senso comunicativo, per cui lo studio, anche la fatica che si fa a scegliere una parola piuttosto che un’altra (che appunto non è mai casuale) è proprio un desiderio di precisione per arrivare a comunicare la nostra sensazione».
DONINELLI: «C’è stato un momento particolare in cui questo si è apertamente palesato?».
GABER: «La scoperta è dovuta al teatro; perché la canzone a teatro non c’era; esisteva in Francia, non in Italia. I maestri sono stati nella scuola francese che faceva del racconto nella canzone un percorso emotivo preciso; e quindi non erano parole in ripetute in libertà con la funzione di diventare poi ossessive e magari anche un motivo di successo. L’ascolto di questi artisti francesi mi ha portato a considerare la possibilità di rinunciare alla televisione, ai dischi, ai festival e a pormi sul palcoscenico con un testo che dovesse essere fruito lì, ad un primo ascolto. È la differenza che c’è fra la canzone da festival che la prima volta che la senti addirittura non la ami neanche, ma sono le ripetizioni dell’esecuzione che te la fanno amare; viceversa la canzone da teatro proprio perché la parola diventa importante è data per la prima volta e deve essere goduta subito».
DONINELLI: «C’è una parola che a me è sempre piaciuta: la parola "politica". Mi è sempre sembrato che nella sua opera, la dimensione politica procedesse di pari passo con l’abbandono dell’aspetto commerciale, divulgativo, che, magari a un esame superficiale, potrebbe essere invece utile alla propaganda. In lei tutto il discorso politico, che non era mai solo politico, sembra molto legato a questo aspetto di concretezza».
GABER: «Io non amo la satira politica e in effetti non è il mio mestiere; mi piacerebbe andare più a fondo nelle cose che limitarmi a una battuta sull’uno o l’altro politico. Anche la politica ritorna negli spettacoli in genere come rimando, non come attacco diretto. Credo che tutto sommato si parli, sì, di politica ma di quello che è la gente in un certo momento della storia, di quello che siamo noi; a quel punto è facile anche che si scivoli a parlare di un momento politico, ma non ho mai voluto scrivere uno spettacolo per un obiettivo politico, questo mai».
DONINELLI: «Noi veniamo bombardati quotidianamente dalle parole che sono talmente delle "cose" che sono dei proiettili che ci fanno male. Allora una persona che usa le parole come fa lei, per comunicare, si è mai imbattuta nel pericolo che le proprie parole possano fare del male, possano non comunicare più niente?».
GABER: «Anni fa io sapevo benissimo, o per lo meno immaginavo bene quale era il pubblico che veniva a vedere i miei spettacoli, un pubblico abbastanza omogeneo e riconoscibile che in genere mi accoglieva con affetto e usciva con molti dubbi problemi e discussioni. I miei camerini erano pieni di gente che chiedeva: perché dici questo o quello, che invece non è vero? Ricordo un finale di uno spettacolo che si chiamava "Polli d’allevamento", in cui mi hanno gridato veramente di tutto e io per lo shock sono rimasto fermo per due anni e non ho lavorato, perché d’estate quando uno scrive è molto coraggioso ma d’inverno quando si recitalo si è molto meno e rimane sotto shock quando crea dei traumi tali nel pubblico, che poi venivano nei camerini a chiedermi perché io cantassi queste cose. Ora il pubblico è diverso, non so bene perché venga a vedermi, e non lo conosco; è molto disomogeneo nella sua venuta a teatro e, per contro, alla fine dello spettacolo sento un consenso abbastanza generale, sono tutti d’accordo: dunque è cambiato completamente. Questo non so se sia un bene o sia un male, però è un fatto. Io ho la sensazione, magari è una sensazione falsa, che la comunicazione sia avvenuta, che le parole per tornare al tema iniziale, abbiano in qualche modo creato un terreno nuovo, che si siano aperti degli spiragli diversi da quando la gente è entrata in teatro».
DONINELLI: «A me piace molto la
Canzone dell’appartenenza. È molto forte l’idea di appartenenza come a una tribù, al clan, appartenenza come fatto etnico, ma anche come un fatto angusto; invece a me sembra che lei quando parla dell’appartenenza parli di un’altra cosa, che non è l’angustia etnica, di tutti quelli che la pensano in un altro modo, ma che sia un’altra cosa, quando dice "è avere gli altri dentro di sé". Questa è una canzone molto amata, come sente lei questa questione, e che differenza vede nel parlare di queste cose oggi?».
GABER: «Non ho capito bene la differenza con cui parliamo di "appartenenza". Io ritengo che non esiste nucleo sociale, piccolo o grande che sia, che possa stare insieme se non esiste questo senso dell’appartenenza, cioè del fare parte di una certa realtà. Ecco, non credo che questa appartenenza sia solo necessaria, ma che sia anche un bisogno naturale dell’individuo, nel senso che un individuo ha bisogno di far parte di un nucleo; il primo nucleo è la famiglia, poi dopo la scuola…: c’è sempre questo bisogno di sentirsi in gruppo, cioè di sentirsi con gli altri. Non so se questo è riscontrabile perché viviamo in una società individualista, però ho la sensazione che ognuno dentro di noi abbia bisogno dell’altro, quindi il poter dire "noi" cambia la dimensione del rapporto con la vita. Ci si accorge che chiunque abbia una carica pubblica e non ha questo senso di appartenenza a quello che sta facendo, è dannosissimo. È molto semplice: è evidente che questo signore seguirà soprattutto i suoi interessi e sarà sempre portato a favorire se stesso rispetto agli altri».
DONINELLI: «Il ritornello dice: "Quando non c’è nessuna appartenenza, la mia normale, la mia sola verità è una gran dose di egoismo, magari un po’ attenuato da un vago amore per l’umanità", che mi sembra dica tutto. Io facevo riferimento a un ritorno alla tribù, al clan, io la parola appartenenza la leggo sui giornali, ma a me sembra che sia una cosa completamente diversa. Lei non sente che esiste anche l’altro modo di dire appartenenza, così bieco?».
GABER: «Sì, è bieco, ma fa sempre parte dei bisogni dell’uomo, in questo caso ha un risvolto di carattere negativo. Questa appartenenza etnica, tribale, xenofoba, eccetera, ha comunque il senso e il bisogno di sentirsi un gruppo: questo è una specie di bisogno che può prendere degli aspetti negativi e altri positivi. Perché questi aspetti siano positivi evidentemente ci deve essere una appartenenza di persone, di intenti, di anime. Bello questo!».
UNO SPETTATORE: «Perché le è piaciuta così tanto la figura del qualunquista?».
GABER: «Il personaggio del qualunquista mi piace molto, perché mi perseguita, sia quando non facevo le canzoni impegnate, sia quando facevo le canzoni impegnate, sia quando ho fatto le canzoni personali: cioè qualunquista sempre. Sono sempre stato un qualunquista, anzi! Mi hanno sempre detto che sono un qualunquista, quindi non mi meraviglio di questa definizione; qualunquista è un termine becero, secondo me molto superato, perché esso si rifà a un vecchio detto dell’uomo qualunque, quando se uno non era chiaramente collocato politicamente da una parte o dall’altra, a quel punto veniva chiamato qualunquista. Dato che io effettivamente non mi sono mai collocato chiaramente né da una parte né dall’altra, mi chiamano qualunquista! È giusto, lo accetto con piacere. Lei ha citato la
Canzone dell’autostrada, ecco, come nasce questa canzone? Nasce da una sensazione. Nasce prima è la sensazione, non il verso. Il verso nasce da solo lungo l’autostrada, nasce dopo che hai pensato a una situazione di solitudine in cui tu ti sei sentito sereno».
UNO SPETTATORE: «Lei dice di essere un privilegiato perché può dire di più rispetto ad altri artisti. Volevo sapere quanto questa situazione di privilegio deriva dal teatro, dall’essere fuori dal circuito commerciale, e quanto invece dal coraggio di essere una persona vivacemente impegnata nella realtà?».
GABER: Sono un privilegiato da un mezzo che ritengo meraviglioso, che è il teatro che mi permette di esprimermi a tutti i livelli. Sono privilegiato perché mi sono creato un mio mercatino; essendomi creato questo mercato, io ho i teatri, mi invitano nei teatri a lavorare, perché facendo pubblico, allora mi danno i teatri: questo non è facilissimo. Non solo, ma io e Luporini ci mettiamo a lavorare senza nessun tipo di condizionamento, perché siamo lì sulla pagina bianca e diciamo: che scriviamo? È questo è un altro privilegio perché non c’è un condizionamento di qualsiasi tipo. Compreso neanche quello "deve piacere o non deve piacere", perché questo semmai è un condizionamento che viene dopo, ma al momento quando scrivi, scrivi quello che ti interessa. Io ho fatto un mercatino talmente piccolo che io i miei dischi li vendo solo nel teatro, sempre più piccolo; mi sembra questo un momento da tirarsi indietro, non da andare avanti! Questo incontro con Doninelli e con voi per me è già un’esagerazione! Spero di non essere stato eccessivamente noioso. Grazie».