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Cattolici e cultura. Gabellini: «La cultura è un legame amoroso»

Roberto Gabellini domenica 26 maggio 2024

Roberto Gabellini

Da diverse settimane “Avvenire” sta sviluppando un dibattito su cattolicesimo e cultura, avviato dagl i interventi di PierAngelo Sequeri e Roberto Righetto e al quale hanno poi partecipato Gabriel, Forte, Petrosino, Ossola, Spadaro, Giaccardi, Lorizio, Massironi, Giovagnoli, Santerini e Cosentino, Zanchi, Possenti, Alici ,Ornaghi, Rondoni, Esposito, Sabatini, Cacciari e Nembrini. QUI la raccolta completa

Se la conoscenza è sempre una relazione, un incontro tra la persona, con il suo impeto di vita e di domanda, e la ‘cosa’, ogni ‘cosa’ che si offre ai suoi sensi, che pone e allo stesso tempo gli dona la propria esistenza; se questo incontro stabilisce in qualche modo un legame, qualcosa di nuovo che prima non esisteva, che entra nell’ottica di un destino comune da affermare, da scoprire – e questo legame è in fondo una delle possibili definizioni di cultura che possiamo dare –, questa stessa dinamica include e quasi trascina con sé l’incontro tra la tradizione e l’oggi, tra ciò che definisce l’identità di ogni cristiano e tutto ciò che lo interpella ogni giorno: un incontro la cui consistenza e valore non possono essere che quelli di un inizio sempre nuovo. Eppure la difficoltà è evidente e risiede, per riprendere le parole di Silvano Petrosino nel suo intervento, nella necessità «di pensare e ri-pensare le opere che si mettono in atto trasformandole così in gesti culturali: è solo attraverso e grazie alla parola che l’“atto” si trasforma in “gesto”». E certamente, volendo ragionare di presenza culturale, non si tratta di trovare un qualche bilanciamento tra la spiegazione delle cose e la militanza sul campo, ma che ogni attività superi la sola connotazione strumentale – quasi un pretesto o un contenitore o addirittura una sorta di premessa per qualcosa che dovrebbe accadere in seguito – e valga appunto come “gesto”, che nel suo proprio accadere, nella sua unicità, contenga e porga un significato o, meglio, un’“esperienza” di esso “ora”, e nuova, che prima non c’era. Occorre dunque che ogni nostro “fare”, ogni nostro incontro con il mondo, con il tempo delle cose e dell’uomo, assuma la consistenza e il valore di questa “esperienza” di senso, di una partecipazione al reale nella quale riaccada, in analogia umilissima, la redenzione che assume e salva tutte le cose, che fa guardare la vita sapendo che per essa Dio ha scelto di morire. “ Fiat lux, fiat voluntas, un’eco lontana risponde alla prima, alla parola di creazione, un’eco fedele: un secondo inizio risponde al primo; una seconda creazione risponde alla prima” (Péguy) È lo stesso impeto di dedizione e di “salvazione” che Flannery O’Connor lega al proprio essere “presenza”. «Quando mi sono sentita dire che siccome sono cattolica non posso essere un’artista, mi è toccato rispondere sconsolata che proprio perché sono cattolica non posso permettermi di essere meno di un’artista ». Una battuta istintiva, quasi uno sfogo, che a prima vista sembra solo un paradosso destinato a sorprendere il pubblico dei non credenti e invece contiene una sfida radicale a chi si definisce cattolico. La fede infatti condivide con la “parola” poetica, con la “parola” dell’arte, la stessa natura di avvenimento, lo stesso prendere parte al riaccadere miracoloso delle cose, continuamente nuove. E proprio all’incrocio tra la realtà e la “parola” che la dice emerge, come scoperta, il valore profetico di questo impeto, capace di «indicare alle cose, agli uomini, agli eventi, alle combinazioni del destino il loro posto visto dall’angolo visuale di Dio» ( Von Balthasar). Come il “gesto” dei piccoli angeli intenti a riarrotolare il cielo in alcuni affreschi medievali, impegnati a strappare un lembo della storia terrena per far intravedere la vera realtà: un’azione che, prefigurando l’ultimo giorno, continua ad avere attraverso i secoli lo stesso slancio di profezia. E anche se ciò che si intuisce è solo un altro cielo, magari di pietre preziose, e la “nuova” storia rimane comunque oscura, l’idea del sipario strappato offre una prospettiva dirompente alla vita di ogni giorno (e un esempio di capacità simbolica di cui l’arte “cattolica” sembra aver perso la memoria). Soprattutto sorprende che in un mondo ormai non più cristiano in tanti attendano proprio uno sguardo capace di oltrepassare l’apparenza delle cose, di ridirne il valore profondo, di cogliere l’attimo sempre nuovo della vita; uno sguardo per il quale la cultura, in un’ottica cristiana, si propone esattamente come affermazione che la realtà, pur misteriosa, è sempre per il bene dell’uomo; e come se in essa (cultura) si offrisse esemplificata una relazione di compimento con tutto il reale. È il compito decisivo che emerge dalle parole di Mario Luzi - «la notte è qui, la notte si propaga, / tende tra i monti il suo vibrìo di ragna / presto l’occhio non serve più, rimane / la conoscenza per ardore o il buio»; il compito di una conoscenza che ha davvero il valore della vita, della necessità: che lega, che brucia e si consuma per poter illuminare, che ama. E ama perché è amata. Ad ogni cristiano è chiesto di fare, lui stesso per primo, questa esperienza d’essere amato per amare, dell’essere guardato da Dio per guardare come Dio; e così luogo lui stesso (e luogo di Chiesa) nel quale riaccade, presente, l’amore di Cristo a ogni cosa; lui stesso cultura.