Il doping non è solo nel ciclismo, ma in tutti gli sport. E una particolare attenzione meriterebbe lo sport più ricco del mondo, il calcio. Anche la Wada (l’Agenzia internazionale dell’antidoping) finalmente si è svegliata e ieri, tramite il presidente John Fahey, ha lanciato l’allarme: «Il calcio ha bisogno di rafforzare i suoi test sull’Epo e anche di un passaporto biologico, come quello dei ciclisti, i calciatori vanno sottoposti a maggiori controlli».Da noi, gli ultimi controlli sembrano fermi a un decennio fa. «La Federazione Italiana Gioco Calcio ha avuto 3 casi di positività al nandrolone con squalifiche per 8 mesi a Mohammed Kallon (Inter), poi ridotta a sei, e di Emanuele Blasi (Parma), portata a cinque, e quella Al Saadi Gheddafi (Perugia), di 3 mesi...». Questo era lo stato dell’arte nel 2003, dieci anni prima dell’apertura del processo spagnolo sul doping, “Operacion Puerto”. Questi professionisti della Serie A - compreso l’unico caso di “non-calciatore” trovato positivo, Gheddafi jr - probabilmente non vennero mai a contatto con il “mago” Eufemiano Fuentes. Così, come agli inizi del decennio scorso, gli altri “nandrolonati” Torrisi (Parma), Davids (Juventus), Monaco e Bucchi del Perugia, Sacchetti e Caccia del Piacenza, Gillet (Bari), Couto (Lazio) e un’altra cinquantina di sospettati, dalla Serie A alla vecchia C, non dovrebbero aver avuto alcun rapporto con il “Dottor Doping” di Spagna. Qui, di spagnolo, all’epoca circolava solo Pep Guardiola, felice di chiudere la sua onorata carriera da uomo in Barça, nel Brescia, con Roberto Baggio. Ma il 21 ottobre 2001, anche il futuro stratega dell’invincibile armata di Barcellona, cadde nella rete del nandrolone, beccandosi una squalifica di 4 mesi e rischiando addirittura la galera. Una perizia scientifica ad hoc, dimostrò che «l’organismo di Guardiola produceva più nandrolone del normale», per questo venne successivamente scagionato e l’accusa di doping definitivamente archiviata (nel 2009) anche dalla Corte di Giustizia della Federcalcio. Così come archiviato, per prescrizione, è finito l’unico processo intentato (nel 2002) a una società di calcio, la Juventus. Ma in merito, come ebbe a dichiarare a
Avvenire, il pm della Procura di Torino, Raffaele Guariniello: «Con la sentenza della Cassazione nel processo Juventus si è introdotto il reato di “frode sportiva”. Al calcio quella sentenza d’ora in avanti deve suonare come: “Aiutarsi con dei farmaci per ottenere un risultato, non è da atleti leali”».L’uso sconsiderato che fece la Juventus di farmaci e sostanze che all’epoca dei fatti incriminati non si potevano considerare doping, non ha spazzato l’area di rigore dalle ombre che ancora oggi si annidano nel sistema calcio. Come quel “pizzino” che sarebbe affiorato tra le carte di Fuentes in cui, tra i possibili “clienti” si fa riferimento al Milan. Chi si serviva di sicuro delle pozioni magiche del “Dottor Doping” era il Real Sociedad del presidente Inaki Badiola che ha ammesso: «Tra il 2001 e il 2002, la mia società ha speso 325mila euro in sostanze dopanti proibite e comprate al mercato nero». Cioè dal dottor Fuentes, al quale il club di Badiola alla fine «versò 2 milioni di euro», come si legge dagli atti della “Operacion Puerto”. Risultato: quel Real Sociedad in cui militava l’attuale campione del mondo Xabi Alonso, nel 2003, da formazione di «normalissimi», si tramutò d’incanto nei «super-rivali» del Real Madrid che vinse il titolo con appena 2 punti di distacco sulla società basca. Mistero, irrisolto. Così ora per squarciare il velo di omertà che copre il calcio mondiale il manager dell’Arsenal Arsène Wenger, prima della Wada, ha chiesto per i calciatori «controlli incrociati, sangue e urine, come per i ciclisti». Se questi fossero stati effettuati, Wenger e altri illustri colleghi della Premier (il difensore del Leeds Danny Mills e l’ex calciatore Henry Winter) sono convinti che casi di positività sarebbero emersi anche nel calcio inglese. Così come è opinione diffusa che è impossibile che su 740 calciatori che hanno preso parte agli ultimi Mondiali del 2010 non sia stato riscontrato un solo positivo ai controlli antidoping. Che nel calcio non si facciano più controlli da un decennio a questa parte? Possibile, visto che nessuna Procura, di Roma, Parma e Milano, le città in cui ha giocato il centrocampista argentino Matias Almeyda, si è premurata di andare a verificare quanto ha scritto nella sua biografia di recente pubblicazione
Alma y Vida (“Anima e Vita”). «A Parma ci facevano una flebo prima delle partite. Dicevano che era un composto di vitamine, ma prima di entrare in campo ero capace di saltare fino al soffitto... – scrive Almeyda –. Il calciatore non fa domande, ma poi, con gli anni, ci sono casi di ex colleghi morti per problemi al cuore, che soffrono di problemi muscolari e altro. Penso che sia la conseguenza delle cose che gli hanno dato». Cose già sentite, raccontate, più di un decennio fa, dall’unico vero “pentito” del calcio, l’ex bomber finito nel fango del dio pallone, Carlo Petrini.La Spagna trema, ma la domanda è: quando verrà fatto uno studio approfondito, se non un dossier, sui “marziani” di Barcellona e Real Madrid? E l’Italia non rida, perché quando gli inglesi ci ricordano che «per giocare mercoledì, domenica e il sabato successivo un calciatore sarebbe capace di assumere qualsiasi cosa», la nostra memoria non può che tornare alle tante mezze ammissioni, archiviate anche quelle sempre troppo in fretta. Una per tutte? Al processo per doping della Juventus alla domanda dei giudici sul perché facesse flebo e usasse dosi massicce di creatina rispose candido: «Le flebo le faccio, perché ci sono utili. Ho preso creatina, ma soltanto nei cinque anni in cui ho giocato nella Juventus. Se no come avrei fatto a giocare 70 partite l’anno?» È la stessa domanda che forse si stanno facendo tanti calciatori in attività e alla quale noi aggiungiamo: senza aiutini si può giocare così tante partite e a ritmi ormai disumani? Attendiamo risposte...