Agorà

Cent' anni dalla nascita. Primo Levi fu il più grande. E non smise di interrogarsi

Ferdinando Camon sabato 13 luglio 2019

Cento anni fa, il 31 luglio 1919, nasceva Primo Levi, lo scrittore italiano del Novecento che tutti, nel mondo, devono aver letto. Nessuno doveva uscire dal secolo scorso senza aver letto Se questo è un uomo e I sommersi e i salvati. Sono la testimonianza e l’analisi della massima colpa del secolo, anzi del millennio, anzi della storia. Eppure Primo Levi non fu capito quando consegnò il manoscritto del suo primo libro, che infatti fu rifiutato, è storia risaputa, ma non fu capito neanche dopo, per tanti decenni, visto che nessuna storia della letteratura lo includeva, e questo è meno saputo. C’era una storia diffusissima, nei licei e nelle università, ed era quella di Natalino Sapegno, che era giunta alla 43esima edizione e di Primo Levi non metteva neanche il nome. Scrissi un articolo proprio su questa dimenticanza, e lo mandai a Sapegno. Nell’edizione successiva Primo Levi c’era con queste parole: «È lo scrittore italiano più importante del secolo». Sono d’accordo. Cento anni fa nasceva dunque lo scrittore italiano più importante del secolo. Dove sta la sua grandezza? Sta nell’aver vissuto in prima persona e osservato e descritto la massima colpa della storia non al grado massimo in cui si verificava, ma al grado massimo in cui era ricordabile e raccontabile. Un altro passo, e anche Levi, come molti altri, non avrebbe ricordato e non avrebbe scritto.

Mi vien sempre in mente che un redattore della rivista di Sartre, Les Temps Modernes, ha incontrato alcuni superstiti dello Sterminio, li ha interrogati e filmati, ma quelli che han vissuto la violenza al grado più alto non rispondono, ma piangono e si torcono. Sono muti. Levi parla. Con precisione, con lucidità, con verità. Con uno stile classico. I suoi libri sono un atto d’accusa freddo e inflessibile. Contro la cultura razzista, il regime razzista, il progetto della Soluzione Finale, l’attuazione di quel progetto, il nazismo. È la Storia del Male, che ha come motore il Führer. Ho incontrato più volte Primo Levi, ne ho ricavato un librino che s’intitola Conversazione con Primo Levi, nel quale c’è anche un doloroso scontro tra Levi e me, e lo scontro riguarda il colpevole di quel Male. Levi aveva una concezione personalistica della Storia, la Storia la fanno i grandi, che sono il vento che scuote il mare, sul quale i popoli galleggiano. Non ero e non sono d’accordo. La Storia la facciamo noi, noi popolo. Dopo la morte di Primo sono usciti due libri che rafforzano il disaccordo, e sono i libri di Goldhagen, I volonterosi carnefici di Hitler, e di Hillberg, La distruzione degli ebrei d’Europa. Questi libri affermano la responsabilità collettiva. Che non vuol dire di tutti i membri del popolo singolarmente presi, ma della massa, c’è una responsabilità di massa, la massa obbediva agli ordini ma li precedeva anche, e li aspettava. Questa tesi è confortante per chi insegna, chi scrive, chi parla, perché gli fa capire che c’è un tempo per l’intervento e l’opposizione, ed è il tempo in cui possiamo agire su di noi. Non si può dire che Hitler abbia tradito tutti e non avesse detto cos’avrebbe fatto, perché il Mein Kampf è chiarissimo, invaderò a est, caccerò popoli, sterminerò razze. Il programma era chiaro. I libri di Levi raccontano l’attuazione di quel programma. Non la spiegazione. Nel Mein Kampf gli ebrei hanno tutte le colpe in generale, ma nessuna in particolare.

Quando Primo si trova vis-à-vis con l’ufficiale tedesco che gli fa l’esame per capire se è un chimico, perché se è un chimico va in laboratorio e sta meglio, i due si guardano da vicino, e Levi immagina che l’altro pensi di lui così: «Questo qualcosa di fronte a me merita certamente di morire, ma prima vediamo se contiene qualcosa di utile». Il posto in cui si osserva se i condannati a morire portano qualcosa di utile è il lager. L’immensa macchina del male descritta da Levi serviva a tre cose: punire, produrre, eliminare. È un mondo senza Dio, in cui si sente fortissima l’esigenza di Dio. La sentiva anche Levi? Dò uno sguardo ai siti che parlano della morte di Levi e provo dolore. Molti dicono «suicida», ma il suicidio è il rifiuto della vita, Levi è morto di sabato e il martedì dopo a me è arrivata una sua lettera, piena di progetti e di speranze. Se m’è arrivata di martedì, l’ha imbucata il sabato, e non è possibile che uno imbuchi una lettera piena di vita, poi va a casa e si butta giù. La mia conversazione con lui si conclude con la sua frase: «C’è Auschwitz, dunque non può esserci Dio», però dopo lui ha aggiunto due righe con la biro: «Non trovo una soluzione al dilemma. La cerco, ma non la trovo», e mi pare evidente che volesse tenere aperta la questione, «Non trovo Dio ma lo cerco». Chiudere la sua biografia con «era ateo» significa non rispettarlo. Rispettiamolo. È il nostro più grande autore del secolo.