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Il personaggio. Frigerio: «Il teatro? È dolore»

Pierachille Dolfini martedì 21 febbraio 2017

La scenografia creata da Ezio Frigerio per “L’opera da tre soldi” di Weill-Brecht (foto di Luigi Ciminaghi)

«Fratelli di lavoro. Io e Giorgio Strehler eravamo questo». Guarda il lago di Pusiano dalla finestra della sua casa. Potrebbe essere una delle sue scenografie. I colori tenui, le atmosfere rarefatte. Quella foschia come nel Falstaff “padano” al Teatro alla Scala. «Una delle mie tante case: mi è sempre piaciuto disegnarle». A Milano e a Roma. In Francia. E a Dikili, in Turchia, «ma li non ci sono più andato. Il regime mi fa paura». Ezio Frigerio ora è tornato a casa. «Sono nato qui vicino, a Erba». Era il 1930. «Quest’anno a luglio sono 87» dice sorridendo alla moglie Franca Squarciapino, costumista e premio Oscar. «Siamo sposati da 53 anni. Per i miei settant’anni mi ha portato da Parigi sino in Cina, solo noi due all’avventura. Per gli ottanta in Turchia. Chissà cosa si inventerà per i novanta». In mano un libro, Cinquant’anni di teatro con Giorgio Strehler, edito da Skira. «Ci siamo conosciuti nel 1955. E non era per una scenografia».

Allora, Frigerio, come è nata la sua collaborazione con Giorgio Strehler?
«Tutto è iniziato in un ufficietto buio e angusto del Piccolo Teatro. Avevo 24 anni e una buona carriera avviata come pittore, avevo esposto in varie mostre, avevo una medaglia della Triennale di Milano. Ma avevo capito che volevo fare teatro perché quello che mi piaceva, e che mi piace ancora oggi, è la collettività del lavoro teatrale, poter collaborare con qualcuno che realizza i miei disegni, gli artigiani, i falegnami, i pittori. Lo raccontai a Strehler e lui rimase colpito. Aveva il suo scenografo di fiducia, Luciano Damiani, allora mi commissionò i costumi per La casa di Bernarda Alba di Garcia Lorca. Gli piacquero e mi affidò altri lavori. Continuai a fare il costumista sino al 1959. Poi volli tagliare i ponti con Milano. Lasciai tutto e andai a Roma dove mi prese Lucio Ardenzi: disegnai le scene per Giorgio Albertazzi e Vittorio De Sica e con il regista di Ladri di biciclette nacque una profonda amicizia e con lui feci anche tre film. Dopo qualche anno Strehler mi telefonò: aveva discusso con Damiani e mi richiamò a Milano. Era il 1963 e disegnai le scene per l’Arlecchino a Villa Litta. Nel 1966 arrivarono I giganti della montagna di Pirandello e il nostro sodalizio decollò».

Era difficile essere lo scenografo di Strehler?
«Giorgio non dava indicazioni di scenografia. Raccontava una storia. Frammenti della sua vita, atmosfere che gli ricordavano un momento particolare e che voleva ricreare in scena in un determinato spettacolo. Mi trasmetteva sensazioni che io dovevo tradurre in immagini. Immagini che lui sognava e alle quali io dovevo dare corpo. Certo non era semplice perché implicava una sintonia totale. I primi anni capitava che dovessi rifare più volte i bozzetti, mentre per gli ultimi spettacoli ci capivamo al volo. Quando, però, vedeva la scena montata sul palco non la riconosceva rispetto al bozzetto iniziale, allora la distruggeva e la ricostruiva dentro di sé e la ricreava con le luci. A quel punto diventava totalmente sua».

C’è il rischio che uno scenografo sia solo un “esecutore” al servizio del regista?
«Ho sempre avuto una libertà totale di esprimere la mia personalità nelle scene che ho disegnato. Non ho mai avuto né paletti né limiti. Ho sempre letto i testi, fin quasi a saperli a memoria, prima di mettermi al lavoro su una scenografia, per fare mio il racconto e poter dare un contenitore ai registi nel quale ricrearlo».

Da dove arrivano il suo tratto e il suo stile?
«Sono il mondo che ho dentro e che si concretizza sul foglio. Sono imbevuti della cultura contadina dei miei primi anni di vita, del mare sul quale ho navigato perché ho fatto il marinaio. Il tutto arricchito dalle letture e dagli incontri che ho avuto nella mia vita».

C’è uno spettacolo che è più suo che di Strehler?
«Forse il Re Lear con il fango nel quale sprofondavano gli attori, ma anche la Minna von Barnhelm di Lessing con le scene sovrapposte. Strehler accoglieva le idee che gli proponevo».

Ha mai dovuto rinunciare a qualcosa?
«Una sola volta, per il nostro ultimo spettacolo. Il Così fan tutte di Mozart che Strehler lasciò incompiuto: avevo un’idea, ma lui volle tornare all’essenzialità delle origini. Lo assecondai, ma quelle scenografie, forse, sono più sue che mie. Oggi, guardando indietro, lo leggo come un segno, era la sua ultima parola teatrale».

Nel 2017 sono vent’anni dalla morte del regista. Che uomo era Strehler?
«Quando non lavorava era profondamente infelice, direi spento. Non eravamo amici. Forse Strehler non ne aveva. Ma quando usciva dall’ombra e iniziava le prove era l’uomo più vivace che avessi mai visto. Sapeva trasmettere una passione capace di tirare fuori il meglio da ciascuno di noi suoi collaboratori. Certo, era un continuo litigare, un continuo azzuffarsi per costruire un capolavoro».

Ed Ezio Frigerio che uomo è?
«Un uomo che ha riposto la sua speranza nel teatro. Mi sono realizzato lì, lì c’è tutta la mia vita. Anche se per me lo spettacolo è sempre stato dolore, a differenza di mia moglie che lo vive come un’immensa gioia. Fare lo scenografo per me vuol dire dare tutto, sino all’ultimo, immaginare un ambiente, vederlo prendere forma in laboratorio, montarlo sul palco, illuminarlo, ma poi abbandonarlo. E tutto questo mi dà un senso di struggimento. Forse anche per questo non sono mai in teatro la sera della prima, arrivo solo all’ultimo, per gli applausi finali. Come Strehler anch’io non riesco a stare senza lavorare. Da qualche anno ho iniziato una collaborazione con il Teatro dell’Opera di Astana in Kazakistan: sto preparando una Carmen. Lo scorso anno ho firmato le scene per un’Aida a Pechino».

Un’opera che avreste dovuto fare alla Scala proprio con Strehler e Riccardo Muti sul podio.
«Il progetto non andò in porto perché Strehler morì. Ma sarebbe stata impossibile da realizzare: Giorgio voleva riempire il palco di sabbia vera. Non aveva pensato, però, a come portarla via una volta finito lo spettacolo».

Una delle sue bizzarrie leggendarie…
«Ricordo che per l’Opera da tre soldi provò decine di chiavi per sentire il rumore che facevano e trovare quella più adatta per la gabbia di Mackie Messer. Prima di trovare quella giusta fece rifare cinque volte da un artigiano toscano la scatola ricoperta di frammenti di specchio de La grande magia, l’unico suo spettacolo di Eduardo. Ma tutto questo faceva la differenza».

Detta così sembra il racconto di un mondo che non esiste più.
«La mia epoca si è chiusa definitivamente perché è ormai diventata espressivamente e politicamente illeggibile. Non ci si esprime più con i mezzi con i quali io mi sono sempre espresso, penso all’accelerata data dalle nuove tecnologie, dai social, ma anche all’estetica moderna che spopola in teatro, nella prosa e, in maniera ancora più evidente, all’opera: non la apprezzo, ma nello stesso tempo non la condanno. Semplicemente non la capisco».

Il libro - Un omaggio al Piccolo
Ezio Frigerio (nella foto) torna al Piccolo Teatro. Lo fa domani alle 19.30 quando, al Teatro Studio Melato di Milano incontrerà il pubblico raccontando i suoi Cinquant’anni di teatro con Giorgio Strehler. Che poi è il titolo del volume pubblicato da Skira (pagine 176, euro 45,00) che raccoglie le immagini (bozzetti e foto di scena) di ventitré spettacoli realizzati dallo scenografo nato ad Erba nel 1930 per il regista triestino. Titoli che hanno fatto la storia del teatro. L’Arlecchino di Goldoni e I giganti della montagna di Pirandello, Re Lear di Shakespeare e L’opera da tre soldi di Brecht. Poi le opere, il Simon Boccanegra di Verdi, Le nozze di Figaro e il Don Giovanni di Mozart. Un omaggio a Frigerio e anche a Strehler di cui, nel 2017, si ricordano i vent’anni della morte. Ingresso gratuito previo ritiro del biglietto presso la biglietteria del Piccolo al Teatro Strehler.