Tra i maggiori specialisti mondiali del nazismo, lo storico Saul Friedländer è autore di una dozzina di volumi. In Italia è appena stato pubblicato da Garzanti il suo
Gli anni dello sterminio. La Germania nazista e gli ebrei (19391945) ( pagine 976, euro 43,00), premio Pulitzer 2008.
In Francia è scoppiata una polemica in seguito alla proposta di affidare a ogni bambino di quinta elementare il ricordo di un piccolo ebreo vittima della Shoah. Alla fine il progetto è stato scartato. Cosa ne pensa? «L’adulto sceglie la propria memoria, cosa ricordare e cosa dimenticare. Ma credo che sia difficile imporre un ricordo. E ancora più difficile imporlo a un bambino. Vorrebbe dire imporgli un’identità, assegnargli un’idea che gli è estranea » .
Come conservare allora la memoria della Shoah, quando stanno per scomparire gli ultimi sopravvissuti? «Una memoria non si può imporre. Si può semplicemente cercare di trasmetterla. Si possono allestire musei, mostre, scrivere libri… Ma non si tratta di trasmettere un ricordo fissato, ritualizzato… In Francia ogni paese ha il suo monumento ai caduti. Un tempo voleva dire qualcosa. L’11 novembre di ogni anno si facevano raduni… Oggi diventa una specie di obbligo, che ha perso ogni emozione. È un dato di fatto. Non si può obbligare nessuno a conservare viva memoria degli eventi, per quanto importanti. Riguardo alla Shoah, è significativo che ne resti viva memoria senza nessuno che la organizzi. Si prenda il romanzo di Jonathan Littell, Le benevole, che ha avuto vasta eco. Nessuno l’avrebbe immaginato. Del libro si può discutere, ma poco importa. C’è un giovane al suo primo romanzo. E migliaia di persone vi rinnovano la memoria della Shoah» .
«Gli anni dello sterminio » dà una visione completa di quello che fu la Shoah. Come ha fatto? «All’inizio gli storici si erano concentrati sulla macchina di distruzione tedesca. Poi c’è stata, soprattutto in Israele, un’altra storiografia incentrata sull’esperienza ebraica della Shoah. A queste due storie andavano ad aggiungersi storie locali, come i libri su Vichy e gli ebrei. Io ho cercato di integrarle tutte. Perciò ho dato ampio spazio ai diari intimi, alle lettere. La difficoltà consisteva nell’impedire al lettore di perdersi. La Shoah è stata un evento che ha interessato contemporaneamente tutto il continente. Nel luglio 1942, ad esempio, la deportazione degli ebrei cominciava a Parigi, ad Amsterdam e a Varsavia. E proseguiva dalla Germania verso i campi dell’Est. Ho cercato di riunire tutto in una sintesi che renda conto della diversità degli eventi e della loro simultaneità».
La scelta è stata influenzata dal suo percorso personale? «Forse gli andirivieni della vita mi hanno offerto questo approccio diversificato, che mi fornisce una molteplicità di punti di vista. Sono nato a Praga. A partire dal 1942 sono stato nascosto e educato al cattolicesimo in un piccolo seminario, a Montluçon, dove sono rimasto quasi quattro anni. Quel periodo mi ha profondamente segnato. Poi ho vissuto in Israele. Ho insegnato in Svizzera, in Israele e negli Stati Uniti. Grazie al mio girovagare riesco a vedere gli eventi da molte angolazioni, a differenza di parte degli storici della mia generazione».
Ha passato quarantacinque anni a studiare la Shoah. Si sentiva in dovere di farlo? «L’ho fatto per bisogno personale. Dalla fine della guerra al 1964 sono stato occupato da altre cose. Nel 1948 sono andato in Israele, ho fatto prima il servizio militare e poi Scienze politiche. Sono diventato assistente di Nahum Goldmann, presidente del Congresso ebraico mondiale, prima che mi venisse l’idea di riprendere a studiare. E solo dopo il dottorato ho fatto ritorno alla mia esperienza personale. Ora il cammino è compiuto».
Oggi sappiamo come avvenne il genocidio. Ma resta difficile dire perché. Lei lo spiega con un'antisemitismo redentore' in Hitler. Di che cosa si tratta? «Nel caos che segue la sconfitta tedesca del 1918, Adolf Hitler spinge all’estremo le idee antisemite che già circolano. Afferma che la salvezza del mondo ariano può realizzarsi solo con la scomparsa del nemico di sempre, dal suo punto di vista: "l’ebreo". "Scomparsa", a quell’epoca, non vuol dire necessariamente "sterminio". Pensava piuttosto a una forma di eliminazione degli ebrei dallo spazio tedesco, e poi europeo. Ma non aveva un piano preciso. Era solo il capo di un piccolo partito. Quanto avvenne in seguito non fu una necessaria evoluzione. Ci fu prima la segregazione, il tentativo di espellere gli ebrei dalla Germania. Ma quando scoppia la guerra nel Paese ci sono ancora trecentomila ebrei. E la Germania occupa una parte della Polonia dove si trovano oltre due milioni di ebrei. Si pensa di rinchiuderli in un territorio dell’Est. Poi si formula il progetto di inviarli in Madagascar. Segue l’idea di concentrarli nel nord della Russia. Ma quando si apre un altro fronte, e appare chiaro che la Russia non sarà rapidamente sconfitta, subentra l’idea dello sterminio totale. Credo che si concretizzi nell’autunno del 1941, dopo l’entrata in guerra degli Stati Uniti. Tale idea diventa un ordine, peraltro mai dato per scritto eppure ben compreso. Himmler lo annota sul suo taccuino, in data 18 dicembre, dopo aver incontrato Hitler. Scrive: Il Führer. Questione ebrea: da eliminare come partigiani'. Nel gennaio seguente c’è la conferenza di Wannsee, dove si progetta che vengano coinvolti fino a undici milioni di persone».
Il lavoro storico sulla Shoah si giustifica anche con l’idea di impedire che possa ripetersi. Eppure non ha impedito altri genocidi… «Sì, in questo lo storico è impotente. Dopo la fine della Seconda guerra mondiale la gente era consapevole di cosa era successo in Europa. Ma ci sono stati la Cambogia, il Ruanda e la Russia stalinista dove sono stati fatti sparire, in forma diversa, milioni di persone e per i quali si può ugualmente parlare di genocidio » .
Non è deludente per lei come storico? «È deludente per noi come esseri umani».
(Per gentile concessione del quotidiano «La Croix » traduzione di Anna Maria Brogi) Il museo della Shoah Yad Vashem a Gerusalemme. Sotto, Saul Friedländer