Intervista. Paolo Fresu: «Il jazz canta la bellezza»
Ambasciatore dell’Associazione italiana giovani per l’Unesco, presidente della Federazione nazionale “Il Jazz italiano”, ma ancor prima gigante della tromba e precoce quanto onnivoro jazzista trasversale, a tutto tondo. Classe 1961, alla natìa Berchidda, nel Sassarese, deve il bisogno della fuga in cerca di nuovi orizzonti e poi il riconoscente ritorno, con la creazione dell’ormai arcinoto festival jazz sardo. E a Berchidda si recherà nel fine settimana per preparare il programma del 31° jazz festival, che presiede, per poi spostarsi ad Alghero che, oltre ad essere la città natale della moglie violinista Sonia, ospiterà il 29 e 30 aprile un altro festival che Fresu dirige, il JazzAlguer, tra le sedi dell’International Jazz Day Unesco, nato nel 2012, che nell’ultimo giorno di aprile farà risuonare anche quest’anno in tutte le latitudini le vitali note in levare.
Fresu, un anno speciale per il jazz italiano questo 2018...
«Se si riferisce alla storica firma del 21 febbraio del protocollo d’intesa con il ministero dei Beni e delle attività culturali, si può addirittura parlare di rivoluzione copernicana. Per la prima volta il jazz viene riconosciuto dallo Stato per la sua rilevanza culturale e ora, grazie alla nascita della Federazione nazionale del jazz, tutte le componenti del vasto mondo jazzistico hanno una voce unitaria».
Peccato che manchi l’interlocutore.
«Chiunque succederà al ministro Franceschini non potrà comunque non tener conto del protocollo, anche se mancano ancora i decreti attuativi. I primi frutti però già si vedono. Come Federazione abbiamo messo a punto un progetto che si chiama “Il jazz va a scuola”, affinché anche la musica improvvisata, che apre la mente ed è capace di parlare anche ai bambini più piccoli della scuola materna, sia introdotta nella scuola. Formando anzitutto i maestri. Ma dobbiamo ancora chiudere il cerchio con la nostra Federazione».
Perché, cosa vi manca?
«Premesso che mettere insieme le associazione dei musicisti, dei festival, dei jazz club, delle agenzie e delle etichette discografiche è già stata un’impresa, vorremmo che potessero entrare nella Federazione anche l’associazione dei fotografi e una di critici, giornalisti e musicologi, oltre a quella per l’alta formazione. Così la neonata Federazione sarebbe ancora più la rappresentazione a trecentosessanta gradi del vasto mondo del jazz italiano».
Come mai questa improvvisa svolta identitaria del movimento jazzistico?
«Alla base c’è una nostra progressiva crescita nel tempo, che ha poi avuto il suo momento clou con l’esperienza partita tre anni fa all’Aquila, con jazzisti di tutta Italia a suonare per raccogliere fondi per le vittime del sisma. Un’iniziativa che riproporremo a fine estate anche per le Marche e l’Umbria con concerti a Camerino, a Scheggino e ad Amatrice, dove stiamo contribuendo alla costruzione di un centro polifunzionale, visto che il teatro è imploso la notte del 24 agosto di due anni fa. L’anno scorso davanti alla scuola feci un concerto tra le macerie. Naturalmente anche per L’Aquila raccoglieremo nuovi fondi. Io sono in giro a suonare ormai da 35 anni e alla mia età sono davvero convinto che, oltre a fare musica, suscitare emozioni e farsi dire dalla gente quanto sei bravo, c’è bisogno di dare ulteriore spessore alle cose che si fanno, dando loro un senso ulteriore».
Del resto il musicista, stando su un palco davanti a un pubblico, ha un certo potere d’influenza.
«Abbiamo il diritto e il dovere di con- tribuire allo sviluppo della società e al miglioramento delle cose. E credo davvero che la musica, attraverso il suo linguaggio universale, possa realmente essere utile in tante direzioni. Soprattutto in questo momento storico, contribuendo in particolare alla riflessione sul valore della solidarietà e della condivisione. Ripenso agli attacchi e agli insulti che ho ricevuto lo scorso ottobre per la mia posizione sullo ius soli quando avevo annunciato un giorno di digiuno per unirmi alla sensibilizzazione a favore della legge».
Si scatenarono in tanti sul web...
«Sì, ma anziché prendermela ho risolto il caso con eleganza pubblicando e facendo un ironico concorso degli insulti ricevuti. Alcuni dei “suggerimenti” meno triviali e meno sgrammaticati mi invitavano a continuare a suonare la tromba e a non occuparmi di politica. Io invece credo proprio che occuparsi di diritti civili è fare buona politica. Ritengo importante porsi la domanda su quanto noi artisti possiamo incidere sul pensiero, il che non vuol dire farlo con violenza ma con poesia».
Ora arrivano giornate all’insegna della musica jazz e dei luoghi d’arte: qual è il messaggio?
«Il rispetto dei territori e la forza della bellezza, di cui l’Italia è naturale portatrice. Quando siamo stati nella sede dell’Unesco, a Parigi, a presentare il nostro programma di concerti per l’International Jazz Day, erano tutti sbalorditi di fronte alla qualità dei progetti musicali e per la bellezza dei luoghi scelti. La nostra diversità geografica e culturale è anche la nostra ricchezza che sta appunto nelle innumerevoli differenze del Belpaese, che dall’Europa centrale si proietta verso l’Africa. Ma c’è anche un’altra cosa in cui, come jazzisti, abbiamo dato l’esempio all’estero».
E quale sarebbe?
«La capacità di unirci, proprio noi che andiamo di solito in ordine sparso. Anche in altri Paesi europei i jazzisti sono riuniti in federazioni, ma sotto le ali delle istituzioni. In Italia invece l’input è venuto dalla base. Una differenza profonda, un segno di civiltà e di dialogo. Che viene tra l’altro da un Paese in cui è notoriamente alto il tasso di litigiosità».
Uno stato di grazia che si potrebbe dedurre anche dai tanti festival jazz in circolazione?
«Sì e no. Oggi si fanno quasi cinquemila concerti all’anno, il che significa investimenti economici, sbigliettamento, diritti d’autore, ecc. Ma questo non risolve il problema del lavoro, cioè l’elevata quantità di musicisti jazz che l’Italia ha. E purtroppo non c’è spazio per tutti, considerando che i festival devono anche chiamare jazzisti internazionali».
Un altro fronte di disoccupazione giovanile...
«In parte sì, perché i musicisti sono sempre di più. Le scuole di musica e i conservatori, dove il jazz è ormai consolidato, sfornano ogni anno musicisti che suonano molto bene rispetto a come suonavamo noi alle loro età, ma che poi non trovano spazio. Su questo, come Federazione, stiamo lavorando con l’associazione dei jazz club, che sono quasi 150, per chiedere anche aiuti al governo, quando ci sarà».
E che cosa potrebbe fare lo Stato?
«Per esempio, defiscalizzare. Permettere ai locali dove si fa musica dal vivo di avere meno costi, visto che i soldi pubblici e le sponsorizzazioni sono in calo. Questo permetterebbe ai musicisti che stanno iniziando di avere la possibilità di esibirsi più facilmente. Speriamo anche nell’art bonus, che sia di stimolo agli investitori privati, e nella nuova legge sullo spettacolo dal vivo che aspettavamo da anni e che finalmente è arrivata. Adesso attendiamo i decreti attuativi. E un ministro sensibile». ©