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La scrittrice Maaza Mengiste. La Guerra d'Etiopia nello sguardo degli oppressi

Paolo Lambruschi domenica 6 giugno 2021

Maaza Mengiste

Torna dal remoto passato coloniale una storia di brutalità e oppressione che l’Italia ha dimenticato, seppellendola nell’oblio da 75 anni, anche edulcorandola con la menzogna. Il re ombra, affresco epico e corale dipinto magistralmente da Maaza Mengiste ed edito da Einaudi (pagine 440, euro 21,00) restituisce nomi e volti ai protagonisti dimenticati della guerra d’Etiopia, le donne guerriere che combatterono contro i “talian” cancellate dalla memoria storica, i ragazzini e le famiglie gasati con l’iprite e un sosia del Negus, da cui viene il titolo, che sprona il popolo a resistere a un nemico molto meglio armato. Un romanzo dalla parte degli oppressi, gli etiopi, a fronte di oppressori e invasori, noi italiani “brava gente”, portati dal fascismo a conquistare l’Etiopia ad ogni costo per costruire l’impero e vendicare l’umiliante sconfitta di 40 anni prima ad Adua, la Caporetto africana. La trama si svolge su due piani temporali paralleli, dall’autunno del 1935 fino alla primavera del 1936 e nel 1974, durante la rivoluzione dei colonnelli filo sovietici che rovesciarono la monarchia feudale del Negus. Il romanzo è risultato, ieri, il vincitore della XV edizione del premio “Gregor Von Rezzori - Città di Firenze” e consacra una grande narratrice, Maaza Mengiste, etiope-americana e docente di letteratura a New York, fuggita all’estero con la famiglia proprio nel 1974, a quattro anni, e molto legata al nostro Paese, nonostante tutto: «Ho vissuto a Roma nel 2010 per quasi un anno con una borsa di studio per la ricerca da cui è nato questo libro. Ho studiato l’italiano per essere autonoma, ero prevenuta perché la guerra ha ucciso un fratello di mio padre e alcuni suoi cugini. Invece lo storico dell’Africa Sandro Triulzi e sua moglie, la traduttrice Paola Splendore, che mi hanno ospitato, sono diventati la mia famiglia. Quando sono arrivata in Italia ero piena di rabbia, volevo scoprire di più sulla brutalità e sulla crudeltà degli italiani. Ma più ho conosciuto il vostro popolo, più vi ho voluto bene e più mi sono aperta a capire la complessità della storia. Ho imparato il significato del perdono, mi sono messa in cammino tra passato e presente per cercare di dare un senso a quel che è successo».

Cosa ha cambiato il suo giudizio? Soprattutto l’incontro con i figli dei caduti in Etiopia. A Firenze, alla fine di una presentazione, un signore anziano mi è venuto incontro con un giornale del 1936 per mostrarmi l’annuncio del funerale di suo padre, sepolto in Etiopia. Mi ha detto: ecco questo è mio papà, se torni laggiù salutamelo. Quell’incontro ha cambiato me e il mio libro. Non puoi vivere arrabbiato, quella guerra ha distrutto famiglie etiopi e italiane. Il dolore ci ha accomunati.

Perché ha scelto come protagoniste Hirut, la serva ragazzina, e Aster, la moglie del padrone, due combattenti?

In realtà avevo cominciato a scrivere una storia con protagonisti maschili, poi sono venuta a conoscenza dell’esistenza delle donne soldato, ho visto le foto ed è stata una grande sorpresa. Loro le rappresentano. Quando stavo terminando il romanzo ho scoperto che la mia bisnonna aveva combattuto con l’esercito etiope. La scrittura è stata un viaggio anche nella mia storia familiare.

In Italia c’è scarsa conoscenza della storia coloniale e della campagna d’Africa. Quali sofferenze hanno inferto gli italiani all’Etiopia?

Quella guerra è stata molto brutale. Per capire cosa sia successo al mio popolo ho cercato di studiare cos’era successo qualche anno prima in Libia, il terre- no su cui l’esercito italiano e i fascisti si sono allenati. L’uso di gas, i campi di concentramento e l’esecuzione sommaria dei prigionieri o di sospetti nemici sono stati sperimentati prima in Libia e poi portati avanti su vasta scala durante l’invasione e l’occupazione dell’Etiopia. Quando si cancella la storia, si commette un grave errore, anzitutto si manca di rispetto ai caduti che non possono venire più ricordati dai propri cari. Anche i combattenti tornati in Italia sono stati traditi dal loro Paese perché sono stati trattati come nazisti mentre molti hanno combattuto con i partigiani. Perdere questa memoria è un’amputazione della storia italiana.

Cosa rappresentano i due personaggi italiani Ettore Navarra, fotografo ebreo, e l’ufficiale fascista Carlo Fucelli?

Fucelli è ispirato alla figura del fascista Rodolfo Graziani [spietato viceré, ndr]. Questa guerra è stata portata avanti da uomini crudeli come lui e volevo capire la natura di questa crudeltà. Navarra è il suo opposto, è di famiglia ebraica e il padre gli ha insegnato ad essere un uomo libero, ma più va avanti la guerra e più diventa complice delle atrocità. Un essere umano contiene tante creature, qualcosa ci porta a comportarci come macchine e volevo esplorarne i meccanismi. Carlo Fucelli, brutale e crudele, cerca di proteggere Ettore Navarra e in fondo ha una sua etica, mentre Ettore la perde. Le sue foto sono un’arma di guerra utilizzata dai colonialisti per la narrazione della presunta differenza tra le persone che giustifica la violenza, l’invasione e la crudeltà.

Perché a un certo punto appare il “re ombra”?

Per spiegare la natura della leadership e del potere. Volevo riflettere sull’altra faccia di un uomo come Hailé Selassié, una leggenda, un mito che fugge. Mi sono chiesta come mai un contadino vestito come lui possa aver spinto la gente a combattere e a morire mentre il vero imperatore era in esilio.

E poi è tornato nel 1941, nel 1974 è stato ucciso. E l’Etiopia è ancora senza pace.

È vero, oggi c’è la guerra nel Tigrai e altri conflitti, ci sono povertà e divisioni. Però durante l’invasione italiana il mio popolo seppe trovare unità e difendere la propria indipendenza. Senza quella lotta avremmo vissuto da schiavi.