Poesia. I nuovi versi di Mencarelli fra amore e potere
Daniele Mencarelli
Partiamo dal fondo, ossia dal secondo dei poemetti che Daniele Mencarelli raccoglie in Degli amanti non degli eroi (Mondadori, pagine 198, euro 18, in libreria da oggi), atteso ritorno alla poesia di un autore che si è imposto come uno dei romanzieri più amati di questi anni. Partiamo da Lux Hotel, dunque, anche perché il primo pannello del dittico, Storia d’amore, non è una novità assoluta per chi abbia seguito la parabola letteraria di Mencarelli fin dall’epoca delle prime pubblicazioni, tra le quali spicca la magnifica silloge Bambino Gesù (2001, poi 2010), le cui vicende compositive hanno fornito materia dell’esordio narrativo di Mencarelli (La casa degli sguardi, Mondadori, 2018). Una prima stesura di Storia d’amore era apparsa nel 2015 all’interno della “collana gialla” realizzata da Pordenonelegge in collaborazione con Lietocolle. Era un’avvisaglia più che evidente di un prepotente desiderio di raccontare ed era, come vedremo, una vicenda che in buona parte anticipava trame e situazioni dei libri a venire: la provincia, la dipendenza autodistruttiva, la ricerca di assoluto che trova espressione in un amore giovane, appassionato e folle.
Accontentiamoci, per il momento, di questa descrizione sommaria e concentriamoci su Lux Hotel, che segue una traiettoria per molti aspetti imprevista. Certo, già in La croce e la via (uscito da San Paolo nel 2021) Mencarelli aveva affrontato il tema della voracità del potere servendosi degli strumenti della drammaturgia in versi. Ma rispetto a quell’apologo, Lux Hotel ha ambizioni molto più alte. Il corrispettivo novecentesco che subito viene in mente è costituito da Rosales (1983), uno degli esiti più convincenti della sperimentazione teatrale di Mario Luzi. La vicinanza tra Rosales e Lux Hotel non è dettata tanto da una labile analogia degli eventi rappresentati, quanto dal clima complessivo di allegoria politica o, meglio, civile. Un tempo si sarebbe parlato di poesia “impegnata”, non fosse che l’impegno principale della poesia coincide da sempre con la volontà di aderire al reale mediante il rigore della parola e della visione.
Come lo stesso Mencarelli ammette in una nota di autocommento, per la prima volta in Lux Hotel il suo verso si frammenta e si dilata, mimando la pomposità delle apparenze (si pensi al ritratto del «cliente abituale / che vuole, / cerca, / esige, / neanche lui lo sa bene, / forse solo la sua disperazione») o la desolazione dell’incompiuto («corridoi deserti / solo voci / dal chiuso delle stanze»). Se Rosales era il ritratto di un immaginario dittatore colto al tramonto della sua prepotenza, in Lux Hotel un tiranno non meno fantomatico è da qualche tempo stato deposto grazie al coraggioso colpo di mano di tre militari, che hanno immediatamente conquistato il rango di eroi nazionali.
A rievocare la tragedia di questi salvatori di una patria innominata è l’uomo che all’epoca lavorava come portiere di notte nel «cinque stelle» che «profuma da secoli di nuovo». I valorosi arrivano in albergo alla vigilia di una festa che non avrà mai luogo, perché nel corso della notte accade l’indicibile. Rivestiti dei loro nomi di battaglia – Nettuno, Marte, Mercurio –, i tre si fronteggiano in una partita a poker dalla quale emergono invidie e rancori, fino all’esplosione di una violenza a lungo trattenuta. Di mezzo non c’è solo la morbosa rivalità fra i soldati che la leggenda vorrebbe inseparabili. Il vero segreto è semmai un segreto di Stato, la cui rivelazione potrebbe avere conseguenze ancora più catastrofiche del bagno di sangue che avviene nella suite più lussuosa del grande albergo. «Una notte ne ha partorite mille / di visi storpi all’inseguimento / lungo i corridoi / del cinque stelle Lux Hotel, / incubi che non puoi dimenticare», lamenta il narratore-testimone mentre l’epilogo si sta avvicinando, in un moltiplicarsi di meschinità che sono l’immagine rovesciata, e forse il contrappasso, dal trionfalismo iniziale.
In paragone alla serrata concitazione di Lux Hotel, l’arco temporale descritto da Storia d’amore è relativamente più ampio. Poco più di un anno, dall’11 ottobre 1992 al 1° dicembre 1993, dura il rapporto travolgente fra Gabriele e Anna. Quando si incontrano lui ha 16 anni e già conosce lo stordimento delle droghe, mentre i 14 anni di lei sono visitati da una bellezza intatta ma non ingenua. Anche in questo caso, come in Lux Hotel, c’è un’unica voce narrante, quella di Gabriele. Le parole di Anna arriveranno più tardi, nel suggello consegnato a una lettera che porta la data, non casuale, del 1° dicembre 2023.
A dispetto del suo nome da arcangelo, Gabriele è abitato da una furia che pare non lasciare spazio alla tenerezza («Non è il futuro che mi manca, / né la forza per vincere una guerra, / è dare un nome a questa cosa / incistata dentro i sensi dalla nascita, / è il dolore che non s’affoga / il lavoro che mi prese da bambino»). Si incapriccia di Anna, prova a disprezzarla dopo esserne stato respinto, ma il legame tra loro si è ormai stretto: «Tutto porta inciso il tuo nome / ogni giorno nato e consumato / il paese tutte le sue strade / le formiche in solenne processione / tutto a voce alta lo ripete / suono più veloce della luce / Anna vero nome dell’amore / nome dal sapore di fiamma / Anna che significa ossessione».
Quello della ragazza non è il solo “tu” al quale Gabriele si rivolge nella sua lenta sequenza di ballate. Presto ne subentra un altro, un “Tu” maiuscolo che compare e scompare in un «eterno nascondino» in virtù del quale Gabriele, poeta involontario, si scopre capace perfino di pregare. Sempre con la mediazione di Anna, si capisce («Amare Chi ti ha fatto viva / è la tua bellezza che lo vuole») e sempre con furore irriducibile e commovente. Sarà anche per questo che Mencarelli considera Storia d’amore alla stregua di «un figlio preferito»: una «storia in versi, semplice, adolescente, messa in scena per raccontare l’amore nella sua dismisura».