Filosofia. Anche Foucault ha un debito verso il nemico Carl Schmitt
Carl Schmitt
Da più di mezzo secolo il nome di Carl Schmitt è entrato a pieno titolo nel dibattito intellettuale italiano. Le nebbie legate al suo sostegno al regime hitleriano non si sono certo dissolte. Ma non hanno impedito che, fin dagli anni Settanta, anche pensatori di provenienza marxista (come Tronti e Cacciari, per citare solo due casi emblematici) abbiano cercato nelle pagine del giurista tedesco la chiave per decifrare gli enigmi della politica. La sua fortuna si è inoltre estesa ben oltre il perimetro degli studi specialistici. E negli scaffali delle librerie compaiono ogni anno nuove edizioni dei suoi libri.
In Francia le cose sono andate invece in modo molto diverso. Al di là delle Alpi il celebre saggio sul concetto di politico venne pubblicato, in una collana diretta da Raymond Aron, nel 1972, proprio mentre in Italia usciva l’antologia curata da Gianfranco Miglio e Pierangelo Schiera destinata ad avviare la riscoperta del pensiero di Schmitt. L’accoglienza del mondo intellettuale francese fu però decisamente più fredda, se non ostile. Presentare le opere del pensatore di Plettenberg, scrisse allora Julien Freund, «significa diventare sospetti», perché l’autore stesso è «un uomo sospetto».
Negli anni di Vichy Schmitt era stato infatti presentato in Francia come un ideologo del nazismo e dopo la fine della guerra rimase un teorico di cui non solo non andavano lette le opere, ma di cui era bene non citare neppure il nome. Le cose non sarebbero cambiate molto neppure in seguito. Al punto che, ancora oggi, intellettuali importanti come Yves Charles Zarka ritengono che di Schmitt, semplicemente, non si debba parlare. Nonostante un tabù tanto persistente, le pagine di Schmitt furono comunque lette e influirono anche su pensatori dalla prospettiva molto diversa.
Una conferma giunge ora dal libro di Valentina Antoniol, Foucault critico di Schmitt. Genealogie e guerra (Rubbettino, pagine 280, euro 20,00). Con dati incontestabili, il volume dimostra infatti che Michel Foucault, nel corso di buona parte degli anni Settanta, intrattenne con il teorico della distinzione tra amico e nemico una sorta di “dialogo silenzioso”. A tal punto da poter affermare che Schmitt ebbe un’“influenza diretta” su Foucault.
L’indagine condotta da Antoniol prende le mosse da tracce molto labili. In tutte le opere pubblicate da Foucault non compare infatti alcuna menzione a Schmitt. Né, a quanto pare, il nome del giurista venne mai pronunciato nelle aule in cui l’autore di Sorvegliare e punire teneva le sue lezioni. Ciò nondimeno, Antoniol ravvisa in alcuni passaggi dei corsi svolti negli anni Settanta al Collège de France, un’assonanza sospetta con frasi di Schmitt, in particolare a proposito della contrapposizione tra amico e nemico.
Sull’onda dell’infuocato clima del periodo (ma anche di una nuova lettura di Nietzsche), Foucault aveva allora iniziato a occuparsi della guerra civile. Rileggendo con una prospettiva originale le rivolte che avevano attraversato la storia francese, aveva elaborato uno “schema polemocritico”, volto a mettere in luce le relazioni di potere. Il suo intento era infatti dimostrare che le istituzioni penali erano il risultato del tentativo di neutralizzare il rischio latente di una guerra civile. In questo quadro, sostiene Antoniol, Foucault si sarebbe imbattuto nel pensiero di Schmitt, o quantomeno nel saggio sul politico da poco tradotto in francese.
Il punto culminante fu il corso del 1976, intitolato “Bisogna difendere la società”, in cui si riconoscono frasi dal chiaro sapore schmittiano. Come, per esempio, quando Foucault evoca l’ipotesi di una “fine del politico” che sospenderebbe “l’esercizio del potere come guerra continua” (superando la contrapposizione fra amici e nemici). Tali somiglianze non sarebbero sufficienti a provare l’esistenza di un’influenza diretta. Portando alla luce alcuni fogli manoscritti conservati nella sterminata raccolta degli inediti di Foucault, l’indagine di Antoniol mostra però che non si tratta di coincidenze casuali.
Questi materiali chiariscono innanzitutto in modo nitido che il filosofo della “microfisica del potere” conosceva piuttosto approfonditamente il saggio di Schmitt sul politico. Ma consentono anche di riconoscere che l’ipotesi di una contrapposizione totalizzante tra due fronti – gli amici e i nemici – indirizzò il pensatore francese fino al 1976. Tanto che, come osserva Antoniol, «è proprio partendo da Schmitt che possiamo cogliere la struttura dello schema polemocritico» adottato da Foucault.
Ciò non significa tuttavia che ci sia un reale accordo tra i due. Le loro concezioni del rapporto tra ordine e conflitto rimangono agli antipodi. Inoltre, Foucault è fortemente critico nei confronti di Schmitt a proposito dell’idea secondo cui l’ordine richiede l’eliminazione (o la limitazione) del pluralismo interno alla comunità politica. D’altronde, proprio nel corso del 1976, Foucault individua nel “razzismo di Stato” della fine dell’Ottocento e della prima metà del Novecento «una specie di estrapolazione biologica del tema del nemico politico». In questa logica, che il nazismo portò alle estreme conseguenze, il “nemico interno” deve essere infatti espulso dal corpo della “razza”, da difendere contro gli elementi “impuri”.
Il percorso di Foucault, “a partire da Schmitt”, si sviluppa dunque per molti versi “contro Schmitt”. Consapevole dei rischi impliciti nell’idea di una netta contrapposizione tra due fronti, dopo il 1976 il filosofo inizia peraltro a guardare in un’altra direzione. Il confronto con l’“ombra di Schmitt” termina con l’abbandono dello schema “polemocritico”. Proprio mentre chiude la stagione più “militante” della sua attività, Foucault si volge verso un modello agonistico. Alla ricerca di una prospettiva che non ceda alla tentazione di vedere nella società solo la divaricazione tra amici e nemici.