La mostra a Rovigo. Robert Capa, il padre di tutti i fotoreporter
Robert Capa, “France. Brittany. Pleyben. July 1939”
Rovigo La voce, pacata e cadenzata, diffusa da una radio d’epoca, è quella di Robert Capa. La didascalia dice che si tratta di uno stralcio dell’intervista originale del 1947 della NBC al fotografo sul suo libro Slightly Out of Focus. Lì accanto, alcune teche contengono numerose riviste, aperte sulle pagine che hanno pubblicato le sue foto. C’è anche il numero di Life con lo scatto più famoso, quello del miliziano colpito a morte nel corso della guerra civile spagnola del 1936. Quella descritta è la bella, ultima parte della mostra Robert Capa. L’Opera 1932-1954 (catalogo Silvana), a cura di Gabriel Bauret, allestita a Rovigo a Palazzo Roverella fino al 29 gennaio.
L’esposizione è composta da ben 366 fotografie selezionate dagli archivi dell’agenzia Magnum e ripercorre cronologicamente, attraverso nove sezioni tematiche, le tappe principali della carriera di Capa dando il giusto spazio ad alcune delle opere più iconiche che hanno segnato la storia della fotografia del Novecento. Come quelle che ritraggono Leon Trockij nel 1932 ad una conferenza sulla rivoluzione russa all’università di Copenaghen. Nonostante il divieto espresso da Trockij di essere fotografato, Capa, autodidatta appena diciannovenne, con la piccola Leica che gli ha messo in mano Simon Guttmann, direttore dell’agenzia Dephot di Berlino, elude la sorveglianza e quelle foto costituiscono il suo primo servizio pubblicato.
Capa ama la libertà, impara il mestiere di fotoreporter direttamente dalla strada, buttandosi dentro la storia, a viso aperto, in prima linea e con quello che riprende cerca anche di capire, gira intorno al suo soggetto, tanto in senso letterale quanto figurato. La mostra riunisce in occasioni diverse più punti di vista dello stesso evento, come a voler riprodurre un movimento di campo-controcampo, e restituisce un respiro cinematografico spesso percepibile in diverse sequenze.
Amante del rischio, non può che essere un giocatore di poker e di corse dei cavalli, Robert Capa (pseudonimo di Endre Friedmann), precocemente indipendente, irrequieto, errabondo, se ne va dalla natia Budapest tra i diciassette e diciotto anni per dirigersi a Berlino e da qui, lui antifascista convinto e per giunta ebreo, a Parigi per sfuggire ai rastrellamenti nazisti. La capitale francese è ricca di soggetti che suscitano il suo interesse, quali il mondo operaio, gli scioperi o gli eventi sportivi popolari come il Tour de France. In un caffè parigino conosce Gerda Taro, giovane profuga tedesca pure lei fotografa autodidatta, con la quale stabilisce un solido rapporto sentimentale e professionale, e alcuni giovani fotografi cui legherà il suo destino e quello della Magnum, della quale sarà uno dei fondatori alla fine degli anni Quaranta, insieme a fotografi importanti quali Henri Cartier-Bresson e David Seymour.
Ma Capa, personalità insaziabile forse mai pienamente soddisfatta, dall’atteggiamento ironico e un po’ guascone, che non esita a mettere a repentaglio la propria la vita per i suoi reportage, se ne va da Parigi per andare a documentare in Spagna la resistenza del governo repubblicano. È così che crea la vera e propria figura del reporter di guerra, quello che va in giro per il mondo, che vive nel mezzo degli eventi con la mac-china fotografica appesa al collo, quello che rende visibili a tutti orrori che sembrerebbero lontanissimi. «Se le vostre foto non sono abbastanza buone, significa che non state abbastanza vicini», afferma, e il suo metodo di rappresentare la guerra diviene lo standard che pubblico ed editori richiedono.
Capa capisce che la verità della guerra va trovata non soltanto nel fuoco della battaglia, ma anche ai margini delle situazioni, delle cose belliche, nei volti dei soldati che sopportano il tedio e la fatica dietro le linee, dei civili devastati dalla paura, dalla sofferenza del lutto. Capa, per tutta la sua carriera, è innanzitutto un fotografo della gente e molte delle sue immagini, anche quelle colte nel pieno della battaglia, non sono tanto cronaca di eventi quanto studi di persone e forse il suo ritratto più veritiero è quello che si può ricavare dalla frase che ripeteva spesso: “Ama la gente e faglielo capire”. La sua rivoluzione visiva, fatta di un linguaggio diretto, senza filtri, che lascia trapelare l’empatia e la complicità con i personaggi ritratti, soldati o civili che siano, Capa la porta avanti nei servizi dalla Cina sotto il fuoco del Giappone, durante la Seconda guerra mondiale, con il conflitto arabo-israeliano e quello nel sud-est asiatico. Ed è proprio qui, in Indocina, nel 1954, che muore, ucciso da una mina antiuomo mentre documenta la guerra al fronte.