Trovarsi a discutere nel 2009 dell’esistenza o meno di Dio, cioè del fondamento primo del cristianesimo, dopo decenni in cui la teologia è stata impegnata in un dialogo serrato – e non più in un confronto apologetico – con le realtà secolari, può far pensare che qualcosa non sia andato nel verso il giusto. Giriamo la domanda a Bruno Forte, arcivescovo di Chieti-Vasto, che interviene oggi al convegno su Dio.
Eccellenza, è colpa di una certa «svolta antropologica» della teologia postconciliare se siamo tornati da capo, ad occuparci di Dio «sic et simpliciter»?«Il Vaticano II è stato il Concilio della storia letta nell’ottica del primato di Dio, dunque non ha spostato l’attenzione dalla questione centrale. Piuttosto, ha posto la questione di Dio di fronte alla complessità delle sfide del presente. Nel post-Concilio ci sono state certo alcune forme di riduzione secolarizzante o ideologica, ma la teologia veramente nutrita dal Concilio ha saputo mantenere alto lo sguardo, sia nel suo ancoraggio alla rivelazione, sia nel suo orizzonte di fondo, che è l’escatologia, sia nel suo riferimento all’oggi degli uomini. Direi che il riproporsi della questione di Dio non deriva da una defezione dei credenti o dei teologi, quanto piuttosto dal crollo delle ideologie e di quelle finte sicurezze che avevano portato a emarginare o a negare sbrigativamente la Trascendenza. Con la crisi dei "grandi racconti" ideologici, si torna a percepire come soltanto nell’orizzonte di Dio si possono cogliere sia il senso della storia che la dignità della persona».
In alcuni teologi cattolici (vedi Vito Mancuso su «Repubblica» di ieri) la questione di Dio si accompagna a un’insofferenza per il dogma e per il Magistero, visti come vincoli soffocanti e anacronistici per una vera ricerca dell’Assoluto. Che cosa ne pensa?«Ilario di Poitiers diceva che il dogma nasce da un’esigenza di carità. È per amore dell’uomo che la Chiesa definisce il dogma, oltre che per la gloria di Dio. Il dogma non serve a chiudere, non è una definizione che blocca la ricerca, ma è quel limite rispetto a cui indietro non si torna. Quando il Concilio di Calcedonia nel 451 definisce l’unità della persona divina nelle due nature del Cristo, pone un baluardo rispetto a ogni forma di impoverimento del cristianesimo; dice no alla tentazione di risolvere il paradosso dell’incarnazione vedendo in Cristo un uomo che viene divinizzato o un Dio che appare come uomo, ma che tale non è. Questo è il grande compito del dogma: non bloccare, ma affermare la verità per non tornare indietro. In questa luce si capisce che il magistero – che propone e custodisce il dogma – non solo non è contrario all’intelligenza della fede, ma non è contrario nemmeno all’autentica libertà dell’uomo. Il filosofo ebreo Joshua Abraham Heschel dice: "La Bibbia non è una teologia dell’uomo, ma l’antropologia di Dio", cioè essa ci dice ciò che Dio pensa dell’uomo. Il dogma e il magistero ricordano all’uomo ciò che Dio ha detto di lui e la luce che questo gli dona».
Lei oggi interviene sul tema «Dio, la storia, la politica». In una dimensione istituzionale moderna totalmente secolarizzata, Dio che cosa c’entra?«C’entra perché anche la democrazia, se non ha un orizzonte su cui fondarsi e non ha dei protagonisti che si riferiscano a dei parametri etici, perde di vista il bene comune. Il concetto di persona elaborato dalla teologia cristiana in rapporto a Cristo e alla Trinità resta cruciale per una corretta concezione della politica. Laddove si ignorasse la dignità della persona, e quindi il principio di uguaglianza, laddove la persona non fosse più veramente al centro dell’azione pubblica, anche la politica, nel suo senso più alto, verrebbe a corrompersi. Ecco perché la questione del Dio cristiano e il fondamento che essa offre all’infinita dignità di ogni essere umano, resta fondamentale anche per la democrazia moderna e per l’agire politico segnato dalle sfide del nostro presente».