La vita di un uomo è una grande corsa, con discese ardite e a volte risalite complicate, al limite della sopportazione fisica. Il cuore è come la catena, può capitare che salti, a volte per sempre. Anche a rimetterla, per riprendere la corsa, spesso ci vogliono anni pazienti e borracce piene d’amore, per se stessi e per quel prossimo che ci corre a fianco, da gregario generoso, ma anche da sprinter scorretto che ci taglia la strada e ci fa schiantare all’improvviso, nel precipizio. Tutto questo Stefano Bruccoleri lo sa bene, per averlo sperimentato sulla sua pelle di uomo solo al comando di un’esistenza che senza la sua bicicletta e la giusta scorta di quelle borracce poteva essere già arrivata un tragico e precoce fine corsa. «Nell’arco di 14 mesi ho perso madre e padre di tumore, un fratello di overdose, scoperto di essere sieropositivo, perso casa, il lavoro (di restauratore) e visto sfumare una relazione. Una sola di queste cose in passato mi avrebbe piegato le ginocchia, tutte insieme hanno migliorato la mia vita», racconta nel libro autobiografico
Via della Casa Comunale n° 1 (Ediciclo; pubblichiamo qui uno stralcio della prefazione di don Luigi Ciotti) che è anche la sua residenza fittizia. A 37 anni – oggi ne ha 43 – Stefano si è ritrovato completamente solo, dinanzi a una catarsi famigliare che lo ha messo spalle al muro di una casa che non c’era più: «Se l’è mangiata la banca, i miei l’avevano pagata 25 milioni, a me hanno messo sopra un debito di 100 milioni…». Un conto insolvibile che andava ad aggiungersi a quello già pagato per un’infanzia difficile di figlio di emigranti in Belgio, nato «da genitori poco più che analfabeti e con l’imperdonabile aggravante della povertà, quella stessa che li portò nella pancia della terra a estrarre carbone». Come se non bastasse l’aver perso tutto, nel frattempo anche il famelico virus dell’Hiv si era insinuato nel suo corpo. Stefano a quel punto di un cammino straziante si è trovato a un bivio: rallentare per abbandonare definitivamente la corsa o continuarla ancora con più forza, sperando di staccare il gruppo delle avversità? In sella alla sua cara, vecchia Benotto, ha scelto questa seconda via: «Intraprendere un viaggio senza meta, principalmente dentro me stesso». Come un Forrest Gump, dal dormitorio di Alessandria fino a Roma, con un’energia sfrenata, Stefano in sei anni ha percorso quasi 27mila chilometri «pedalando a tratti felicemente e a tratti da idiota», in sella all’inseparabile bici con cui traina un carrello che custodisce la sua tenda e le poche cose sopravvissute di una vita fa. Una radio a fargli compagnia, per sorridere con le voci di Fiorello e Baldini, un sole come cappello per i pomeriggi tristi e la pioggia che quando arrivava era semplicemente la «doccia naturale» nei giorni dell’abbandono.«Ma sono stati di più i giorni in cui ho avuto dagli altri il dono dell’ospitalità. Una notte in Piemonte ho piazzato la tenda in un campo di zingari amici. Ho avuto la fortuna di ricevere tanto dalla strada che per tutti noi è una grande chiave di lettura, basta riappropriarsene perché l’abbiamo smarrita, insieme al senso della piazza e dello stare insieme», dice fermandosi un attimo dopo essersi lasciato alle spalle il traffico di Bologna. La città in cui ha incontrato Massimiliano Salvatori, animatore del blog di strada “Asfalto” e del gruppo di informatica del centro diurno di via del Porto. «Che adesso – dice amaro Stefano –, come tutte le cose che in Italia funzionano, è stato chiuso. Lì è nato il mio libro e lì c’era il laboratorio delle maschere di quel genio di Massimo Macchiavelli, uno dei tanti barboni che in quel luogo oltre a confrontarsi con tante realtà diverse, hanno scoperto una risorsa in più per sopravvivere alla solitudine e al disagio quotidiano, la Rete». Bruccoleri è stato il primo senza fissa dimora italiano che ha aperto un blog su Internet. Una finestra aperta tutti i giorni sul mondo, a cominciare da quello dei più deboli incontrati nei dormitori. «Lì di notte ci va a dormire la miseria certo, ma tra i barboni ci sono anche tanti artisti, scrittori, poeti, con la loro bella pagina di Facebook che non sempre sarà serio e utile, ma nel loro caso posso assicurare che è molto funzionale per lenire un po’ anche la povertà… Che il nostro sia un Paese sempre più abitato da poveri l’ho capito quando alla mensa della Caritas, in cui ho conosciuto degli operatori eccezionali, un giorno si è presentato un cinese. Al dormitorio di Torino ho conosciuto un ex manager che aveva perso tutto come me, per il fallimento della grande azienda in cui lavorava. Grazie ai servizi sociali ha fatto un corso interno e ora è diventato un operatore».Vite all’asta che si rimettono in carreggiata, pronte per affrontare altri tornanti come Stefano che riempiendo schermate e quaderni di appunti ha scoperto di essere uno scrittore, «con la passione per le parole precise», come scrive in postfazione al libro Simona Vinci. «Crescendo con due genitori analfabeti fin da piccolo ho capito che solo la parola, quindi la cultura, ti salva e ti dona il potere della libertà. Sono dislessico e anche per questo ho letto solo tre libri in quarant’anni:
Pinocchio,
Lettera a una professoressa di don Lorenzo Milani e
Il gabbiano Jonathan Livingston, ma solo perché era scritto a carattere 14. Da poco ho scoperto Pennac, un genio della parola, ma se vado oltre la settima pagina finisce che smetto di scrivere e devo cercarmi un lavoro…». Di Pennac, Stefano non ha mai letto il
Signor Malaussène, personaggio che tanto gli somiglia. E un lavoro in verità l’ha tanto cercato, ma trovando per lo più porte sbattute. Così nel 2008 si è inventato la Ciclofficina, per le riparazioni delle biciclette a domicilio. Un modo per sbarcare il lunario, perché i 250 euro al mese di pensione da invalido all’85% non possono bastare e per riuscire ad ottenere al più presto quella casa che gli spetta, in quanto iscritto alle liste dell’emergenza abitativa, e senza la quale non ha neppure accesso alle terapie per l’Hiv. «Anche la malattia è diventata un modo per comunicare e informare, i giovani delle università che ho incontrato presentando il libro, ma anche gli anziani che si infettano per ignoranza, concedendosi incontri amorosi fugaci in quanto vittime di quella solitudine integrata che vedo in giro un po’ ovunque».Una piaga diffusa come l’altra che Stefano identifica nel «razzismo non reale, che nasce dalla grande paura dinanzi a chi è diverso e arriva da Paesi che non conosciamo. Ovunque al Nord ho sentito chiamare un africano “beduino”. Nonostante tutto, credo sempre più che “la carne preferita da Dio è quella dei poveri e dei deboli”». È una frase che piace tanto a Stefano questa del vescovo emerito di Ivrea monsignor Luigi Bettazzi e che ha sentito citare da don Ciotti, conosciuto tanti anni fa, prima che cominciasse la sua avventura dell’Italia attraversata in bicicletta. «Non sono un cicloturista, perciò i luoghi belli per me si identificano con le persone che mi hanno lasciato un segno. A Piacenza c’è un prefabbricato che ogni volta che ci passo mi scalda il cuore perché so che lì dentro c’è della bella gente». Il viaggio di Stefano continua: direzione Sud. Laggiù dove non è ancora arrivato con la sua bicicletta. «Voglio andare a Catania, città per la quale ho lavorato a distanza facendo l’inviato di Telestrada: gli mandai un servizio su un siciliano che vive in una baracca alla periferia di Bologna». Una delle tante storie con cui asfalta ad ogni sosta altre pagine di diario. Perché c’è un altro libro in cantiere, ma prima c’è questo da far leggere e far comprare al mondo, «così con i soldi delle copie vendute posso far riaprire il laboratorio di via del Porto». Stefano sulla salita più assurda dell’esistenza ha scoperto che ci si salva dalla morte anche pedalando. Ma soprattutto scrivendo, usando parole, precise, come queste: «Afferrare un’immagine e sbatterla sul foglio è come levarsi una montagna dallo stomaco, un modo per raggiungere la giusta distanza dal peggio del peggio, dal più brutto e da dolori insostenibili».