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Anniversario. “Forrest Gump” ha 30 anni: il sogno americano è pieno di ombre

Alessandro Beltrami sabato 5 ottobre 2024

"Forrest Gump", il film di Robert Zemeckis con Tom Hanks, compie 30 anni

Esattamente trent’anni fa, il 6 ottobre 1994, usciva nelle sale italiane Forrest Gump. Divenuto ben presto proverbiale, il film di Robert Zemeckis è stato salutato come una avventurosa commedia sul sogno americano, incarnato da un personaggio onesto, coraggioso e leale, con un cuore d’oro. Allo stesso tempo, in diversi hanno riconosciuto in Forrest uno specchio del protagonista di Candido di Voltaire, come se però fosse solo uno spunto letterario. Se invece portiamo fino in fondo il parallelo, ci accorgiamo come dietro la patina spiritosa, a tratti surreale, e l’ostentato ottimismo dell’eroe involontario si delinei una critica affilata della società americana e del suo posto nella storia.

La chiave arriva subito, quando apprendiamo che Gump, un figlio dell’Alabama, deve il suo nome al generale Nathan Bedford Forrest, fondatore di un Ku Klux Klan descritto dal protagonista come una banda di goliardi che si diverte a scorrazzare sotto un lenzuolo e spaventare la gente. Quello che forse sfugge è che Tom Hanks sta parlando a una ragazza di colore, la quale poi si alzerà non tanto annoiata ma infastidita dal modo in cui Gump rievoca, senza comprenderlo, l’episodio della fine della segregazione razziale all’università e l’opposizione del governatore Wallace davanti a una folla pienamente solidale con lui. È l’inizio di un racconto del secondo Novecento americano – i decenni trionfanti – come una sequenza di violenze e tragedie, percorsa dal nostro eroe senza un trasalimento. Forrest Gump appare, calvinisticamente, un predestinato: esemplare, in questo senso, è la scena in cui la sua nave è l’unica sopravvissuta all’uragano Carmen, fatto che gli garantirà il monopolio della pesca dei gamberi e una fortuna milionaria. Quell’episodio è legato al rapporto del tenente Dan con Dio, il quale sembra “donare” al duo una sorta di pesca miracolosa. Quasi però ci si dimentica che la tempesta ha gettato un’intera costa e i suoi abitanti nella miseria.

Riascoltati, i commenti innocenti di Forrest suonano come gelidamente ironici. Il film è costellato da presidenti o aspiranti tali che finiscono uccisi o feriti “senza un motivo”: lo stesso Wallace, i due Kennedy, Ford (due attentati), Reagan. Non c’è chi non finisca in un mirino: troviamo anche John Lennon (e in una scena tagliata Gump avrebbe dovuto incontrare Martin Luther King a Selma). Quella di Gump, sotto i colori brillanti, è una favola densa di ombre. La madre sola (il padre è fuggito) lotta perché il figlio non sia ridotto a scarto, ma dovrà prostituirsi con il preside perché Forrest possa studiare. Il tenente Dan arriva da una «lunga e gloriosa tradizione militare: nella sua famiglia avevano lottato ed erano morti in ogni singola guerra americana». Bubba, un altro innocente, rivela l’anima imperialista dell’America: «Quando avremo vinto questa guerra porteremo qui [in Vietnam] i pescatori americani a pescare gamberi». Non è finita. Forrest incontra Nixon ed è miccia dello scandalo Watergate. Diventa il soldato perfetto perché sa che il suo compito è fare quello che dice l’istruttore. La sequenza della corsa attraverso l’America illumina il bisogno di messianismo degli Stati Uniti, e non a caso il personaggio di Tom Hanks diventa una parodia cristologica: è seguito da folle in cerca di una risposta, imprime il suo volto su una maglietta come una Veronica, la sua corsa dura tre anni e due mesi, più o meno come la vita pubblica di Gesù...

Particolarmente significativa è la figura di Jenny (almeno in parte modellata su Cunegonda), che non è semplicemente l’amore inseguito da Forrest per tutta la vita ma è lo specchio oscuro dell’altro sogno americano, in apparenza cosciente ma disperso nell’utopia, che pretende di volere un mondo migliore ma passa di illusione in illusione. Quella della ragazza è una fuga costante – da sé, dalle responsabilità, dal presente – in un altrove che è un viaggio all’inferno. Generosa, idealista, Jenny è abusata dal padre e si metterà costantemente con ragazzi sbagliati; finisce su “Playboy”, viene espulsa dall’università e si trova a fare la spogliarellista; eccola quindi nel mondo hippie e nell’ipocrisia di un movimento a sua volta ideologico e colluso con la violenza; di lì passerà nella notte delle droghe pesanti e nella prostituzione degli anni 70. Dopo avere più volte pensato al suicidio e trovata la salvezza grazie a Gump, morirà di Aids. Se Forrest attraversa la sequenza di tragedie della storia pubblica, Jenny passa per quelle sociali e private, sottraendone l’alone del mito.

Visto a distanza di trent’anni, con un'America percorsa da nuove, violente tensioni (oggi nel film troveremmo forse anche l'attentato a Trump), Forrest Gump appare come una versione amara e senza lieto fine dei film di Frank Capra. Lo stesso protagonista ne riprende l’eroe tipo (anche nelle improvvise esplosioni di violenza), il provinciale travolto da una realtà più grande di lui ma capace di portare alla luce le contraddizioni della società. A differenza delle figure di Capra, veri puri di cuore che acquisiscono coscienza senza perdere l’innocenza, Forrest non riesce a imparare a vedere. Nella sua perfetta inettitudine, che gli consente (a differenza dei personaggi di Capra) di «stare come un’anatra nell’acqua» in ogni situazione, Gump appare sì l'americano esemplare, ma al contrario: ipostasi di una pretesa innocenza dell’America che è invece cecità.