Letteratura. Forrest Gander: «La mia ecopoesia»
Il poeta americano Forrest Gander
Forrest Gander ha ricevuto da poco il premio Pulitzer per la poesia con la silloge Be With (New Directions 2018), un florilegio di elegie dedicate principalmente alla moglie – anche lei poetessa – Carolyn D. Wright, scomparsa nel gennaio 2016. Classe ’56, Gander nasce nel deserto del Mojave in California. Dopo aver frequentato il College of William & Mary ( Virginia), si specializza in geologia. Successivamente consegue un master in letteratura presso la San Francisco State University. Si trasferisce in Messico e poi in Arkansas, mentre la sua poesia, fortemente nutrita di richiami scientifici e intessuta di una lingua sensoriale e uno stile borbottante, talora privo di normali connessioni sintattiche – secondo quanto nota il critico Dan Chiasson –, rivolge sempre di più l’attenzione al paesaggio come fonte di attività lirica e francescanamente locus amoenus da preservare, struttura percettiva e luogo di vincoli umani. Esponente di spicco della letteratura ecologica e, in particolare, della cosiddetta “ecopoesia” (il nuovo numero della rivista “Semicerchio” è dedicato proprio a questo argomento: Ecopoetry. Poesia del degrado ambientale, a cura di Niccolò Scaffai, n. 58-59, Pacini editore, pagine 168, euro 40), Gander ha insegnato a Harvard, ed è ora professore emerito di Letterature comparate alla Brown University. Traduttore – soprattutto di autori messicani e sudamericani – e romanziere (del 2008 è il suo As a Friend), il californiano mescola, in ogni sua attività letteraria, persino nella saggistica, l’intimismo dickinsoniano e l’elusività testuale tipica di Wallace Stevens.
Quali sono le direttive più rilevanti della sua poesia?
Mi sono formato come geologo, il che ha rafforzato la mia naturale tendenza a virare tra prospettive su larga e piccola scala. Mi piace considerare il quadro complessivo – idee concettuali, forma, tema – in quanto si collega alle particolarità schemi cristallini, sfumature emotive, relazioni tra parole adiacenti. Mi trovo a rispondere, in questo particolare momento storico, alla nostra esigente situazione ambientale, e mi affascina più in generale il rapporto tra l’umano e il non umano. Anche la fenomenologia e la filosofia orientata agli oggetti hanno circoscritto il mio capo d’indagine. Ma sono interessato ad articolare gli stati emotivi e psicologici – nel modo in cui si relazionano con il mondo che ci circonda –, piuttosto che sviluppare qualsiasi tipo di polemica.
I suoi testi brulicano, appunto, di riferimenti geologici. Quale rapporto di senso s’instaura tra la poesia e il paesaggio?
Noi esistiamo soltanto in uno spazio. Non possiamo pensare nulla che non sia già in raccordo con il mondo. Quindi il paesaggio è parte di noi: proprio come il Dna dei parassiti da molto tempo integrato nei nostri corpi è diventato parte di noi. Ho scritto un libro con il poeta attivista australiano John Kinsella intitolato Redstart: sostanzialmente una poetica ambientale, entro la quale consideriamo in dettaglio gli aspetti etici ed estetici del rapporto tra poesia e paesaggio.
E qual è, invece, il nesso che lega letteratura tout court ed ecologia?
Non sono un poeta proscrittivo. Ovviamente si può e si deve scrivere di qualsiasi cosa in qualsiasi maniera. Ma viviamo in un’epoca di acuta crisi ecologica. E molti autori si sentono in dovere di affrontare questa crisi. La maggior parte dei movimenti artistici è iniziata in una singola città – spesso Parigi – con un manifesto firmato da un gruppo di uomini bianchi. Ma l’ecopoetry si è evoluta in tutto il mondo allo stesso tempo e, sin dall’inizio, molti dei suoi esponenti più rappresentativi sono state donne. Coral Bracho in Messico, Julia Fiedorczuk in Polonia, Inger Christensen in Danimarca, Marcia Mogro in Cile... Letteratura ed ecologia sono interconnesse in una miriade di modi, e i poeti sono impegnati su diverse traiettorie. Raúl Zurita, per esempio, richiama la nostra attenzione sul fatto che i corpi di migliaia di cileni sono stati ridotti a brandelli nel deserto o fatti a pezzi e lanciati dagli elicotteri nel mare, nelle foci dei vulcani e nelle montagne del Cile durante il brutale regime di Pinochet. Per Zurita il paesaggio è letteralmente inseparabile dall’umano.
In Be With è presente una sorta di “dialogo” con san Giovanni della Croce. Quale valore interpretativo nasconde?
La poesia a cui si fa riferimento è, in realtà, una traduzione molto libera, la riscrittura – per così dire – di una lirica di san Giovanni della Croce. È una poesia d’amore mistico e mi ha perseguitato nel mio dolore sulla scia della morte di mia moglie. Il mistero di come due persone possano fondersi a livelli più profondi mi assorbe ancora...
Di cosa parla esattamente Be With?
Direi che tutta la mia poesia riguarda essenzialmente l’intimità. C’è un passo nei taccuini di Albert Camus che trovo estremamente significativo: «L’eroismo è una virtù secondaria. L’amicizia è primaria». Penso che voglia dire che le sfumature dei nostri rapporti più stretti ci dicono qualcosa di più su noi stessi. In Be With ci sono poesie sulla perdita e sulla passione, ci sono poesie sull’Alzheimer e riflessioni sui complicati sentimenti di alienazione e tenerezza che sperimentiamo alla presenza di qualcuno la cui memoria si sta polverizzando, e ci sono poesie sul confine tra Messico e Stati Uniti che esaminano quel paesaggio desertico per trovare tracce storiche del desiderio umano e del trauma.
Lei ha pubblicato anche un romanzo. Si sente più a suo agio con la scrittura in prosa o in versi?
La poesia è un avvertimento, e ha gettato le basi per ogni altro impegno che ho con il mondo e con gli altri...