Pugilato. I 70 anni di George Foreman, un leone del ring
George Foreman con Muhammad Alì, nel mitico match del 30 ottobre 1974 a Kinshasa
Un incontro epocale, due vite, cinque mogli, dieci figli, la faccia di gomma, il sorriso dolce dei pugili sopravvissuti a loro stessi, i movimenti lenti, una naturale inclinazione allo show. Settant’anni oggi. George Foreman. “Big George”, il campione che ha vissuto due volte. Nel mezzo: Rumble in the Jungle, la storia della boxe. Contro Muhammad Ali. Che all’ottavo round, dopo aver insultato e sbeffeggiato l’avversario, gli sussurra: «Ehi George, è tutto qui quello che sai fare?». Via dalle corde, una serie veloce di colpi, un destro definitivo. Foreman al tappeto, Ali in trionfo nel delirio di centomila africani. Era il 30 ottobre 1974, a Kinshasa, nello Zaire. Quando eravamo re, appunto. Campione olimpico nel 1968, anno di rivoluzioni più o meno riuscite, Foreman nel cammino verso la medaglia si trovò di fronte l’italiano Bambini. Lo mandò al tappeto. All’allenatore che gli intimava di rialzarsi, Bambini rispose: «Se lo faccio, quello mi uccide». Fisico devastante, pugno definitivo. Sul ring sventolò anzi: ostentò - la bandiera americana, per dissociarsi dalla contestazione di Smith e Carlos dopo la finale dei 200 metri. Nel 1972 si prende la corona di campione del mondo, smontando Frazier pezzo per pezzo. È il periodo di maggior successo. Arriva all’appuntamento con la storia - Rumble in The Jungle - cavalcando l’onda di 40 vittorie, di cui 37 per ko. Finirà al tappeto per la prima volta nella sua carriera. Urlerà al mondo la sua rabbia: «Sono stato drogato, mi hanno avvelenato ». Gianni Brera scrive: «Pareva che l’avessero stregato, che un filtro misterioso ne avesse improvvisamente ottenebrato le facoltà mentali». Quella sera è irriconoscibile. Un fantasma. Goffo e maldestro. L’incontro con Ali lo segna nel profondo. Non trova pace. Tre anni dopo decide di ritirarsi. Si fa fotografare con la Bibbia in mano. Ha trovato il Dio che non aveva cercato. È un’illuminazione: diventa predicatore evangelico. Nel mentre, sforna figli e divorzia da svariate mogli con modalità turbolente.
Tornerà sul ring nel 1987, a 38 anni, dopo un’aspettativa di dieci lunghissimi anni. E’ diventato calvo, è sovrappeso di trenta chili, più che muoversi, arranca. Annuncia intrepido: «Riprendo a combattere perché per compiere la mia missione di pastore di anime occorrono tanti soldi. Se Dio è con me, proseguirò fino a 45 anni». Sarà di parola. Nel 1994 a Las Vegas George Foreman a 45 anni e 9 mesi diventa il campione del mondo più anziano nella storia del pugilato. Dopo la vittoria si inginocchia all’angolo per pregare. Al suo ritorno sulla scena di ispira anche Sylvester Stallone per un Rocky d’antan. Tre anni dopo gli organizzano un incontro con un pugile più giovane di lui di 17 anni. Foreman ne ha 48, Lou Savarese 31. Gli rifila un destro micidiale, Savarese non si regge in piedi. Big George scende dal ring con 4 milioni di dollari in più sul suo conto bancario. Ai giornalisti spiega: «Devo pagare le scarpe di Michael Jordan ai miei figli». E poi se la ride. Anche oggi che ha settant’anni Foreman viene ricordato per essere lo sconfitto in quella notte a Kinshasa, la notte in cui non vinse solo Ali, ma tutta l’Africa. Muhammad Ali - il nome dopo la conversione all’Islam di Cassius Clay - era il nero d’Africa che tornava dai suoi fratelli: «Dio mi ha prescelto – disse – la boxe è il mezzo con cui rac- conterò l’Africa alla mia gente». “Big George” era invece complice dei bianchi. Quando scende dalla scaletta dell’aereo si fa precedere da un pastore tedesco. È un’offesa - forse non voluta per il popolo africano.
Quando il Congo era ancora una colonia prima di diventare Zaire, i belgi usavano infatti i cane pastore nelle loro spedizioni punitive contro inerì. Quella notte era tutti contro Foreman. Gridavano: «Ali bomayè», «Ali uccidilo». Simbolico che l’incontro simbolo della libertà si sia disputato in un paese - lo Zaire oltraggiato dal colonialismo, dalla dittatura e dalla guerra civile. Texano, quinto di sette figli, conosce il padre biologico - un militare di carriera - solo quando è adulto, cresce tra risse e rapine, c’è sempre un motivo valido a Marshall - per fare a botte con qualcuno. E George non si tira mai indietro. La boxe arriva come un’ancora di salvataggio, esperienza comune a molti pugili prima e dopo di lui. Ha distrutto il mito di Joe Frazier, ha rivinto il titolo di campione del mondo dei pesi massimi due volte a distanza di vent’anni dalla prima alla seconda, ha esordito nei pro’ nel 1969, ha tirato l’ultimo pugno nel 1997, 83 incontri ufficiali, 70 chiusi per ko, una sola volta è finito al tappeto, sì, contro Muhammad Alì, in quella notte meravigliosa e terribile, da leggenda. Ha attraversato due ere, ha combattuto nell’epoca di Ali e in quella di Mike Tyson. Ha preso tanti pugni, molti di più ne ha dati, ha regalato brividi ad almeno due generazioni di appassionati. Grande tra i grandi, ha un posto d’onore nella leggenda della boxe. Dei dieci figli avuti, cinque li ha chiamati George. Ineccepibile la motivazione: «Un pugile deve prepararsi al tempo in cui perderà la memoria. Un solo nome da ricordare è più facile di cinque».