La psichiatria infantile qualche volta studia e cura i bambini facendoli disegnare e colorare. Dal disegno lo psicologo ottiene molte informazioni che gli consentono anche una diagnosi sulle condizioni mentali del piccolo paziente. Non stupisce, quindi, che Karl Jaspers, dopo aver subito il fascino della pittura di Van Gogh nel 1912, abbia lavorato sul suo «caso pittorico» dieci anni prima di dare alle stampe il saggio
Genio e follia dove analizzava quel singolare intreccio di follia e grandezza artistica che si manifesta nell’arte di Van Gogh. È cosa nota che l’elevata incidenza del giallo denota in Van Gogh una sofferenza, così come il ricorrere di cerchi, semicerchi, grovigli spiraliformi parla delle sue ossessioni; certe deformazioni delle forme reali e gli accostamenti di colori spesso dissonanti, timbrici e materici al tempo stesso, mettono a nudo la violenza del conflitto di emozioni nella sua personalità. Ma – ed è questo il dato ancora importante nel saggio di Jaspers –, se per un verso è certo che la follia non sia una causa del genio (non tutti i pazzi, infatti, sono grandi artisti o grandi scrittori: nel libro, Jaspers si occupava anche di Strindberg), dall’altro è vero che tra questi malati molti producono disegni o scrivono; follia e genio, le due cose possono anche convivere ma sono ben distinte, tanto più se si tenta un discorso analitico. E qui Jaspers fa un’affermazione che vale per Van Gogh e per i veri geni anche se malati: «In queste personalità, la schizofrenia è la condizione, la causa possibile perché si aprano queste profondità», intende, Jaspers, le profondità che legano creatività e trascendenza. In pratica dice che se Van Gogh non avesse avuto un certo livello di schizofrenia neppure il suo genio sarebbe diventato così evidente. Per quanto suoni terribile e sconvolgente, significa che la follia è stata la sua marcia in più, il valore aggiunto alle sue capacità tecnico-artistiche, che oggi ci consentono di vedere qualcosa che resta, nonostante le pretese della medicina, un mistero, un fatto inspiegabile cui la pittura dà un volto “guardabile”, ma, ecco, si tratta di qualcosa che dovrebbe turbare. Lo spiega bene Jaspers: «È come se una fonte ultima dell’esistenza si aprisse per un istante, come se i recessi più profondi della vita venissero alla luce. È un’esperienza per noi sconvolgente, non possiamo tollerarla a lungo e la fuggiamo. Per un attimo la vediamo nelle grandi opere di Van Gogh, ma ciò non ce la rende sopportabile ». Vi sono infatti all’opera, in questa pittura, «forze spirituali che non sono né sane né malate ma prosperano sul terreno della malattia». È necessaria questa ampia premessa se si vuole affrontare il nodo Van Gogh-Artaud che il Museo d’Orsay di Parigi presenta in una veste propriamente jaspersiana fin dal titolo del saggio di Guy Cogeval che apre il catalogo: «Trascendenza del delirio». Il titolo della mostra, invece, è quello del saggio col quale Artaud cercava di rovesciare, come una cascata di complessi di colpa, la responsabilità della follia vangoghiana sull’universo sociale che aveva portato Vincent a togliersi la vita in quanto demone che metteva in luce la vera nevrastenia che domina la relazione tra gli uomini e le cose nella nostra società. Dobbiamo, naturalmente, fare le pulci ad Artaud (di cui in anni recenti si è cercato di sminuire la grandezza riconsegnandolo brutalmente alla psichiatria), il quale rifletteva, nella brillante intuzione del problema, la sua stessa malattia. Ma rileggendo un libro di Sylvère Lotringer, che ripercorre l’analisi degli psichiatri che ebbero in cura Artaud, s’insinua il sospetto che il malato fosse più sano dei suoi terapeuti. Cogeval dice, giustamente, che quel saggio su Van Gogh «scaturì come un grido nell’inverno del 1947» (l’anno dopo lo scrittore morì). È bene ascoltare Artaud che dice: «Una esposizione di quadri di Van Gogh è sempre una data nella storia, non una data nella storia delle cose dipinte, ma nella storia storica
tout court. Poiché non c’è carestia, epidemia, esplosione di vulcano, terremoto, guerra, che smuova mondi d’aria, che torca il collo della figura bramosa di fama fatale, il destino nevrotico delle cose, come un dipinto di Van Gogh...». Van Gogh non era quell’anima candida che il mito ha creato, ma un uomo con una natura fortemente carnale e concreta; basta leggere le sue lettere per rendersene conto. Una personalità contorta ma anche un fine psicologo e interprete della natura di molti che incontrava (impressionano, per esempio, le considerazioni sulla continenza sessuale di Degas come mezzo di intensificazione della sua arte, perché colgono in profondità un segreto che il grande pittore francese dissimulava con ironie da uomo di mondo). I francesi hanno uno stile che incanta, nel modo con cui fanno le mostre. Il d’Orsay dispone di ventiquattro dipinti di Van Gogh, che nel 2011 ha ricollocato secondo un nuovo percorso. È stata l’occasione, dice Cogeval, di iniziare a pensare a questa mostra, che espone quarantasette dipinti, sette disegni e due lettere di Vincent. Il
Volo di corvi su campo di grano, che si dice sia l’ultima opera di Van Gogh, non uscendo mai dall’omonimo museo di Amsterdam, ma essendo decisivo nel discorso di Artaud, è stato rimpiazzato e ingigantito da un video ad alta definizione che scruta il dipinto nei particolari con spostamenti rallentati che seguono la lettura, da parte di Alain Cuny, di brani del libro di Artaud, del quale in una sala sono esposti alcuni disegni, tra cui tre autoritratti, e una serie di fotografie realizzate nel 1947 da Denise Colomb (quale confronto più illuminante sul grado di sofferenza e di follia, tra queste foto e gli autoritratti di Van Gogh?). C’è anche un video che presenta brevi spezzoni di venti film dove Artaud recitò come attore (dal
Napoléon di Gance alla
La passion de Jeanne d’Arc di Dreyer) dove il suo volto, giovane e non ancora segnato dalla follia e dai trattamenti psichiatrici, rivela però un’aura iconica straniante (anticipazione somatica della sua malattia?). Dicevo che i francesi sono bravi a organizzare mostre sia per la capacità di individuare soggetti che esercitano un’attrazione mitica (quale tandem più di questo per il falso romanticismo di una società, davvero suicidante, che riduce gli individui a produttori-consumatori?); sia perché non s’accontentano di quello che hanno: potevano farsi bastare le ventiquattro tele del d’Orsay e prenderne qualche altra da musei francesi, invece sono andati a chiederne parecchie e importanti ad Amsterdam, Washington, Colonia, Otterlo, Los Angeles, Stoccolma, Saint Louis, New York, Vienna, Helsinki... Insomma, non volevano farne un pretesto per una mostra di cassetta, che certo avrebbe attirato le folle anche se esponeva solo i quadri di Parigi, ma renderla una vera occasione per riflettere con gli occhi, prima che con la mente, su un tema di alta suggestione. E qui, però, urge una considerazione conclusiva che non muove da intenzioni moralistiche, bensì estetico-critiche: la folla ha risposto, centinaia di persone si stipano nelle sale e si fatica non poco a vedere bene le opere, costretti a torcere il collo e a piegarsi con performance degne di un funambulo. Perché? Come ribadisce Cogeval, perché Van Gogh si divide con Picasso la fama di artista più conosciuto al mondo. Mi chiedo sempre come gli spettatori attirati dal mito vedano Van Gogh. Ho l’impressione che accada per la sua pittura ciò che accade con l’arte tribale. È stata guardata, venduta e comprata, e ancora oggi viene apprezzata secondo valori ben diversi da quelli che sono i suoi e sulla base dei quali è stata creata. Guardiamo Van Gogh e nel suo colore senza ombre ci pare di vedere una particolare bellezza, una luce totale che, come sanno quelli che l’hanno provato, è un abbagliamento, una notte oscura. È lì che la sofferenza genera una visione, di cui, però, ci sfugge il tormento, la lancinante ossessione, mentre rubiamo, con l’aria di chi è autorizzato dalla universalità del bello, quell’estasi che Vincent, probabilmente, conobbe solo raramente.