La storia. Folkstudio, addio Bradley: un americano a Roma
Harold Bradley a Roma: nel 1960 fonda il Folkstudio
Dici Folkstudio, e subito ricordi (o canti) i «quattro ragazzi con la chitarra e un pianoforte sulla spalla»: «Antonello ( Venditti) che cantava come Elton John, il “Principe” De Gregori, Francesco che faceva Bob Dylan all’italiana. Giorgio (Lo Cascio), calabrese che traduceva Leonard Cohen, e infine io, con il pianoforte sulla spalla “Tinin” Ernesto, il “Bax” di Cuneo, quasi “scuola genovese” arrivato a Roma dalla provincia sperduta», ricorda il cantautore Ernesto Bassignano. Ma quello, è il secondo o forse il terzo atto di una commedia all’italiana il cui incipit lo scrisse un americano a Roma: Harold Willard Bradley Jr. L’istrione colored – è stato pittore, attore e cantante – che ieri si è spento all’età di 91 anni. Ne aveva trenta quando in piena dolce vita questo gigante buono, forte anche del suo passato da giocatore di football americano si fece largo a spallate tra i paparazzi di via Veneto, e dall’atelier che condivideva con uno scultore connazionale, Bob, arrivò fino alla “cantina” di via Garibaldi. È lì al civico 59 che fondò il mitico Folkstudio. Da questo momento, prende il via una storia che ha solo come suo epilogo la famigerata “scuola dei cantautori”, mentre il Folkstudio è stato qualcosa di più di un locale culla del nostro cantautorato (“romano”), ma un piccolo eden artistico in cui si respirava l’aria del mondo. E solo due storici, due musicisti votati alla divulgazione orale come Bassignano e il compositore Toni Cosenza possono raccontare questa storia per paragrafi veritieri e sentimentali, senza incappare nelle scivolose leggende metropolitane che si tramandano da sessant’anni in qua: «Tipo? Che al Folkstudio una sera del ’63 cantò il giovane Bob Dylan... Basta controllare il suo passaporto e si vedrà che quell’anno il premio Nobel non è mai stato a Roma...», dice sorridendo Toni Cosenza arrivato a Roma da Napoli dopo aver studiato al Conservatorio, chitarra classica con il maestro Mario Gangi, e danza classica all’Accademia Valeria Lombardi. Nel 1967 Toni strinse la mano possente di Bradley che al Folkstudio davanti a una platea di non più di trenta persone – «tanti erano i posti, non tutti paganti e chi tardi arrivava restava fuori ad origliare» – tra un concerto blues o jazz dei suoi amici americani di passaggio a Roma e qualche ruolo d’attore a Cinecittà ( Io Semiramide o Maciste l’eroe più grande del mondo) saliva sul palco e intonava Old man river, brano portato al successo da Frank Sinatra. «Harold era un artista, uno che in quello stesso anno, il ’67, decise di tornarsene a Chicago dove oltre a fare l’attore e il pittore sarà in prima linea nella lotta al razzismo, in difesa dei diritti degli afroamericani».
Lascia Roma dove da cattolico praticante, nella Cappella Capitolina aveva sposato Hannelore Zacharias, un’ebrea tedesca conosciuta all’Università per stranieri di Perugia: la mamma dei loro tre figli Oliver, Michaela e Lea. Bradley allora prese un volo solo andata per gli States e dopo sette anni da vacanze romane lasciò il testimone del locale, ormai diventato punto di riferimento della vita notturna e culturale della capitale, all’amico Giancarlo Cesaroni. Un chimico, gestiva un centro di analisi, animato da due grandi passioni: i cavalli e la musica jazz. «Fu Giancarlo a prestare ad Harold i soldi per il biglietto aereo...» e senza Bradley, Cesaroni continuò ad organizzare le session di musicisti che hanno fatto la storia del jazz italiano, come il caposcuola Carlo Loffredo, il talento straordinario di Massimo Urbani, sassofonista come Mario Schiano che ha importato dagli Usa il free jazz. «Schiano è un nome chiave: nell’estate del ’70, Giancarlo doveva assolutamente andare al mare e così diede le chiavi del locale a due “pischelli”, Marina Fiorentini (figlia del-l’attore) e a Federico Torrebruna, mentre con Mario decidono di aprire la sede estiva del Folkstudio nell’isola di Ponza. Lo chiamano il Folkstudio Ponte. «Su quel palco per la prima volta si esibisce il 19enne Francesco De Gregori che veniva dal- l’insuccesso di Alice. Al Folkstudio Ponte si tenne il mio spettacolo di canzoni popolari napoletane, poi il repertorio scarno di Francesco (De Gregori) e l’esibizione della chitarrista Giovanna Marinuzzi decretarono il trionfo». Euforico il ritorno a Roma, dove però a Cesaroni lo attendeva una sorpresa che è un altro atto della commedia e che presto diventerà una pubblicazione di Toni Cosenza: «Si intitolerà “Folkstudio, storia di uno scippo” in ricordo delle chiavi del locale che non vennero restituite a Giancarlo che così traslocò. Prima in appoggio alla Libreria Uscita e poi in uno spazio un po’ più grande, in via Gaetano Sacchi n. 6».
La vocazione di Cesaroni era per il jazz e il folk: la musica delle band etniche: il Canzoniere del Lazio, il Canzoniere delle Lame, i Pastori di Orgosolo, il Gruppo Operaio di Pomigliano... «Iniziarono ad esibirsi e a farsi conoscere le nostre cantanti folk Giovanna Marini, Caterina Bueno e la straordinaria e purtroppo dimenticata Rosa Balistreri. Ma l’altro nume tutelare del Folkstudio è stato Leoncarlo Settimelli, il quale portò il “Canzoniere internazionale” con le voci del “Cuba libre” o i canti popolari della guerra vietnamita – continua Toni Cosenza – . A Giancarlo poi bastava fare una telefonata in Irlanda che subito, con la promessa di vitto e alloggio agli artisti, atterrava a Roma il gruppo irlandese o quello di musica celtica...» Il Folkstudio insomma, non era un semplice locale di musica dal vivo ma un laboratorio permanente di antropologia culturale. «Poi, finalmente arrivano i “famigerati” cantautori, con una premessa – sottolinea Cosenza – , quello che generosamente ha lanciato e aiutato tutti loro, smettendo per anni di fare la sua musica, è stato Ernesto Bassignano».
I trenta spettatori del Folkstudio per tutti gli anni ’70 videro passare, cantare e crescere in popolarità De Gregori e Venditti. Da qui decollarono Claudio Lolli, Rino Gaetano, Stefano Rosso, Mimmo Locasciulli, Renzo Zenobi, Sergio Caputo, Grazia Di Michele... «Tutti artisti selezionati, cioè di sinistra. Del resto solo Bruno Lauzi all’epoca si professava apertamente di destra e perciò non era ammesso... Povero, quando mi incontrava mi ripeteva: “Tu Bax sei troppo intelligente, come fai a stare con i compagni?”». Questa storia è durata per tutti gli anni ’80 e in occasione del 25° anniversario del Folkstudio il ponentino della nostalgia riportò Bradley a Roma per inaugurare la sua «second life». All’ombra del Cupolone riattacca con la musica sacra e il blues. Con Toto Torquati e con il gruppo gospel Voices of Glory tiene concerti nella chiesa valdese di Piazza Cavour e con la Jona’s Blues Band, gira per i teatri e le piazze d’Italia. «Sul fronte gospel si esibiva anche con i St. John’s Singer di Manziana, con Masa Opasha e Annette Meriweather fu ospite al mio Festival jazz e presentammo “Canto a Maria” – racconta Toni Cosenza – Grazie ai miei buoni uffici con l’allora vescovo di Salerno, il concerto si tenne nella Basilica di Vico Equense... Fu uno spettacolo e anche un fatica farlo cantare, Harold prima del concerto divenne una furia: gli consegnarono una Coppa con su scritto “all’ideatore del Folkstudio” e lui sbottò. “Sono il fondatore!” disse arrabbiatissimo e rifiutando il premio. Aveva ragione». Il fondatore del Folk Studio continuò a fare la spola con Roma, a recitare «un cameo come cardinale in Habemus Papamdi Nanni Moretti» e a cantare: con il gruppo le Matite colorate incise la canzone Kumbayah per raccogliere fondi da destinare ai bambini del Darfur. Solo un uomo generoso come Harold Bradley poteva fare tutto questo, partendo dal suo Folkstudio.