Agorà

Riscoperte. Fogolino e Verla, due pittori vicentini e il Rinascimento a Trento

Maurizio Cecchetti venerdì 28 luglio 2017

Marcello Fogolino, «Madonna con bambino e santi»

Ci fu un Rinascimento che fiorì nel Trentino e fu a suo modo un portato della guerra fra la Repubblica di Venezia e l’Impero asburgico. Un Rinascimento di marca veneta e padana. È quello dei vicentini Marcello Fogolino (tra 1483 e 1488-post 1558) e Francesco Verla (1470-1521), che delle turbative politiche, cui si aggiunse per Fogolino il clima di lotta dei luterani verso la Chiesa di Roma e la risposta di questa con il Concilio di Trento, sperimentarono gli effetti “emigrando” nella terra del potente Bernardo Cles, vescovo di Trento dal 1514, poi fatto principe da Massimiliano I d’Asburgo e cardinale da Clemente VII. Verla muore quattro anni dopo che Lutero ha affisso alla porta della chiesa di Wittemberg le 95 tesi. La mostra che gli dedica il Diocesano ha avuto un input singolare: una allieva del corso di Museografia tenuto da Domenica Primerano, direttrice del Museo, propone alla docente di assegnarle come tesi un progetto di organizzazione di una mostra. Cioè, una simulazione. La docente, pur trovando insolita la proposta, propone all’allieva di occuparsi di Francesco Verla, pittore poco studiato (l’ultima ricognizione nel 1967 si deve a Lionello Puppi, che ebbe anche un ruolo nella riscoperta di Fogolino, ma prima di Puppi se n’era occupato diffusamente Berenson allargandone il catalogo talvolta erroneamente). Nel 2015 Ivana Gallazzini, l’allieva, si mette sulle orme di Verla per una mostra che diventa realtà: è quella che vediamo oggi. La Gallazzini scrive saggi e schede nel catalogo, e tuttavia, stranamente, non figura fra i curatori della mostra, che sono Domizio Cattoi e Aldo Gallo (correlatore della Gallazzini). Non figura nemmeno nel comitato scientifico, ma soltanto, appunto, fra gli estensori di testi e schede. Come mai? La cosa mi pare strana se la Gallazzini è stata la prima a doversi cimentare con la mostra, senza nulla togliere ai suoi maestri, studiosi di lungo corso.

Comunque sia, l’opera di tutti è meritoria. Verla è un “dimenticato” che la Primerano definisce “alfiere del Rinascimento” fra l’Adige e le Alpi; il suo segno interviene su un gusto ancora tardogotico con una nuova visione dello spazio e della realtà. All’inizio del Cinquecento si trova a Roma ma, scrive Aldo Galli, non è dato sapere dai documenti quanto possa essere durato quel soggiorno, mentre c’è notizia del suo rientro a Vicenza nel 1508. Cavalcaselle aveva posto Verla sotto l’influenza del Perugino e storici come Adolfo Venturi ritenevano che avesse vissuto in Umbria qualche anno. Galli sottolinea che il legame con Perugino è palmare proprio nelle prime opere ed è lecito supporre che abbia avuto a «frequentarne per qualche tempo la bottega».

Questa dipendenza dal Vannucci si vede chiaramente in un’opera come la Madonna in trono coi santi Antonio abate e Pietro martire di Velo d’Astico. Galli ritiene possibile che Verla abbia soggiornato a Perugia, nella bottega del Vannucci tra il 1501 e il 1502, assorbendo quanto più poteva dal maestro, e poi sia andato a Roma nel 1503 attratto dalle voci sul nuovo gusto per “anticaglie” e “ruine”, approfondendo lo studio dell’arte antica: «Lunghe giornate consumate a disegnare tra le spoglie della città antica e a scendere magari qualche volta, armato di torcia e in compagnia di colleghi piovuti da tutt’Italia, nelle viscere dell’Urbe», scrive con piglio figurativo Aldo Galli. L’ultimo omaggio peruginesco di Verla è quello dell’aerea, aurorale pala della Madonna in Trono col Bambino e quattro santi già nella chiesa di San Bartolomeo a Vicenza. Il salto e la fine dell’«ubriacatura umbroromana di Verla» si coglie nello Sposalizio mistico di santa Caterina d’Alessandria, che mette a frutto la meditazione sull’antico condotta a Roma, a cominciare dall’architettura con nicchie e volte a cassettone, così l’attenzione ai dettagli e la loro sontuosa bellezza parlano un’altra lingua da quella “graziosa” del Perugino. Sembra che la moda all’antica abbia reso Verla un pittore più attento all’umano, all’eroica dignità dell’umano, di cui è testimone il bellissimo Cristo morto di Palazzo Chiericati a Vicenza, nel contrasto quasi metafisico fra la plasticità del busto e la verità umanissima del volto (anche se la ricostruzione storica lo colloca nella stessa cronologia della grande pala di san Bartolomeo). Far dialogare Perugino con l’area padana, scrive Galli, è la vera scommessa di Verla. È una padanità che guarda a Mantegna, alla sua “moralità” iela ratica e austera, e altri riferimenti vanno a Marcantonio Raimondi.


Di fatto questa ultima maniera sarà quella trasmessa nel suo soggiorno trentino stemperando con una morbidezza più veneta il disegno mantegnesco, come nella pala a Mori, anch’essa su Santa Caterina d’Alessandria. Dall’avvento di Bernardo Cles a Trento comincia anche l’attività di Verla, che costituirà una sorta di apripista per Fogolino. Questi era un artista a suo modo burrascoso, costretto a fuggire dopo l’omicidio di un barbiere. Arriva in Trentino nel 1528 e diventa pittore di corte per Bernardo Cles e poi del suo successore, Cristoforo Madruzzo, che curò l’organizzazione del Concilio di Trento. In quegli anni era aperto il grande cantiere del Palazzo Magno nel Castello del Buonconsiglio, dove la mostra è allestita e dove si possono vedere i ritratti affrescati da Fogolino nella Sala dei Vescovi. Già allievo di Bartolomeo Montagna a Vicenza, Fogolino visse aVenezia per otto anni. Poi fu costretto a riparare in Trentino. Il quadro con cui inizia il suo catalogo, la Madonna incinta di Cornedo Vicentino, attribuitagli nel 1990 da Mauro Lucco, testimonia una dipendenza montagnina del giovane pittore, che pare sciogliersi già dopo solo qualche anno grazie alla meditazione sulla luce e il sentimento metafisico del colore di Antonello da Messina e di Giovanni Bellini (vedi la Madonna col Bambino in trono conservata alla Pinacoteca di Brera).

L’itinerario geografico di Fogolino è avvolto ancora nel- nebbia. Si sa che dopo Trento si sposto ad Ascoli Piceno, a Gorizia e Bressanone. Fu un pittore errante e non è escluso anche per sfuggire alle conseguenze della sua indole irrequieta. Giovanni Villa, che guida il comitato scientifico della mostra, nota che Fogolino procede attraverso l’analisi minuta, il frazionamento, la suddivisione delle sue composizioni «che lo indurrà sempre ad appuntare le figure in gruppi con rigida simmetria» con un «gusto del dettaglio e dell’episodico» e una «felice vena narrativa». Ma proprio questo lo ha anche penalizzato, scrive Villa, perché la critica si è divisa fra chi lo considerava attardato su schemi quattrocenteschi e chi invece lo vede come un artefice del Rinascimento in trentino. Il tandem con Verla li rende uno snodo essenziale (con Dosso e Romanino) della dipendenza dell’arte trentina dalla molteplice sorgente padana.