Musica. Riccardo Fogli: dopo i Pooh solo grandi storie di tutti i giorni
Martedì prossimo all’Arena di Verona tornano in scena i Pooh. No, non è che cancellano di colpo la fine della storia della band, avvenuta il 30 dicembre 2016: più banalmente, verranno premiati nel corso dei Wind Music Awards (in diretta tv su RaiUno alle 20.30) per il tour col maggior numero di spettatori dell’anno scorso e per le vendite – da disco di platino – del loro ultimo disco, il live da San Siro. Intanto, Dodi Battaglia sta già girando l’Italia con un bello show da solista, Red Canzian ha firmato un libro (con ricette della figlia) sulla sua scelta etica vegana, Roby Facchinetti e Stefano D’Orazio compongono e scrivono nell’ombra (anche se il 7 a Bergamo il primo ha organizzato una serata benefica con molti ospiti per Nepios, onlus che aiuta infanzia e famiglie). Riccardo Fogli, lui è tornato a essere Riccardo Fogli: tour pure all’estero e, soprattutto, un libro autobiografico delizioso ( Un uomo che ha vissuto, Sperling & Kupfer) in cui racconta Patty Pravo e Music farm, genitori e figli, guerra e amici che se ne vanno.
La carriera di Riccardo Fogli, toscano di Pontedera a ottobre settantenne, è sempre stata in bilico fra i Pooh e il Sanremo vinto 35 anni fa con Storie di tutti i giorni, fra il suo ruolo di bassista- cantante del gruppo che lanciò Pensiero e Noi due nel mondo e nell’anima, e un’attività da solista che ha conosciuto folle e gradimento tanto quanto l’oblio di essere considerato (ingiustamente) “da revival”: magari proprio quando toccava le sue vette, nell’lp Teatrino meccanico o nella gemma Romanzo. Dopo i Pooh Fogli è tornato quello di prima: gentiluomo spiritoso, pulito, verace tanto da raccontare come nascono i libri dei cantanti firmati con altri («Tu parli e qualcuno scrive, in pratica detti…») e senza voglia né di compiangersi né di perdere la libertà di potare un ulivo pur di avere cachet migliori. Peccato, però, sentirgli dire «Non penso a dischi perché ci vogliono budget che non ho da anni», o «Lo sa che c’è chi ha recensito l’ultimo tour dei Pooh dicendo di tenermi d’occhio, che ho una bella voce e canto benino?». Meglio tardi che mai, caro Fogli: in Russia Il treno per Parigi, gioiello nascosto di un Cd italiano del ’96, l’hanno fatta diventare una hit di quelle che vendono i dischi…
Fogli, perché ha scelto di scrivere un libro?
«Me lo chiedo anch’io. Mi sono ritrovato famoso dopo l’annuncio che ero coi Pooh: anche prima volevo farlo, ma nessuno era interessato. Ora ho dovuto farlo dettandolo. Di tempo non ne avevo, nel 2016…».
Cos’è successo quando siete scesi dall’ultimo palco?
«Ci siamo abbracciati. Abbiamo scelto Bologna anche per regalarci intimità, da fratelli, senza più luci».
Tornare con i Pooh ha cambiato la sua vita?
«Non ho cantato mie canzoni per diciotto mesi e per otto ho studiato le loro, imparando che si doveva parlare uno per volta e riscoprendo la poesia di Negrini, immensa. In alcuni anni i soldi mi servivano per mangiare, non certo per comprare i loro lp».
Ha rimpianto di averli lasciati per Patty Pravo?
«Sono contento della mia strada. Da soli si impara… ».
Lei cosa ha imparato?
«L’umiltà. Ricordarsi che il futuro ce l’hai anche a vent’anni: noi pagavamo meno Enpals per tenere soldi per la benzina, così oggi io avrei solo una pensione da 700 euro, non avessi messo via qualcosa. Ai miei figli vorrei passare questo e il senso del sacrificio, solo coi Pooh ho scoperto che esistono hotel cinque stelle con la suite… Ma i momenti duri mi hanno insegnato che contano le cose semplici, non ricorderò certo quel tour per gli alberghi ».
Si può dire che la sua carriera esplose a Sanremo?
«Era lo spazio promozionale maggiore. Però ci arrivai dopo Che ne sai e un milione di copie vendute con Malinconia. Certo da allora sono uno dei più amati nell’ex-Urss: ma amato dai locali, non da emigrati».
Nel ’79 avrebbe potuto svoltare con l’opera rock Matteo, ora definita gioiello ma allora non edita…
«Volevamo, col produttore Lucariello, non dover trovare ogni sei mesi un singolo furbo. Però Matteo di singoli non ne aveva proprio e così non andai nei teatri. Potevo crescere molto, sì. Ma avrei saputo scrivere un bis? Nessun rimpianto, neanche qui».
E neppure per una sottovalutazione della critica?
«Amo le pause, sa? Non voglio morire sul palco: ma in giardino con attorno figli e cani, mentre mia moglie cucina un minestrone. Amo quanto faccio e vi esprimo la mia sensibilità, ma non sono fanatico. Forse avrei dovuto esserlo, per fare strada: e sentirsi scoperto adesso come cantante è strano, questo è certo».
In compenso è diventato ragioniere a sessant’anni.
«Mamma fu lesionata a una gamba da un ictus, quindi cadde e si ruppe il femore, e da allora volle solo la sedia a rotelle. L’accompagnavo ovunque, finché arrivò l’Alzheimer e non ebbe che sprazzi di lucidità. In uno di essi disse però che mi avrebbe voluto come il ragionier Rossi, quello che per due uova le spiegava le lettere. Allora le promisi di finire la scuola e diplomarmi e beh, l’ho fatto».
Quando tornerà ai dischi? E ai tour?
«Ai dischi non so, il tour è il mio mestiere ormai ».
Cosa prova a cantare negli ospizi, una delle cose che libro svela di sé nel libro?
«Ti senti bene se fai un gesto gentile: gli anziani sono come bimbi, e però conoscono le mie canzoni! La musica, per loro, è un regalo».