Il quaderno era rimasto nascosto in uno scatolone per almeno mezzo secolo. Il
professor emeritus William A. Sessions (che tutti in realtà chiamano Bill) lo ha scoperto per caso, mentre svolgeva le sue ricerche per la biografia ufficiale di Flannery O’Connor alla quale lavora da tempo e che dovrebbe uscire nei prossimi mesi, a ridosso del cinquantesimo anniversario della morte della grande scrittrice cattolica statunitense. Nata a Savannah, in Georgia, il 25 marzo 1925, l’autrice di
La saggezza nel sangue e
Il cielo è dei violenti morì il 3 agosto 1964 nella grande casa di Milledgeville dove si era ritirata dopo che, nel 1951, le era stato diagnosticato il
lupus erythematosus, la malattia autoimmune da cui era stato colpito anche il padre Edward. Fa una certa impressione trovare nel famoso quadernetto, risalente al 1946-1947, la speranza che l’amore di Dio si insinui in lei «come un cancro». Flannery ha solo 22 anni, ma lo stile è inconfondibile: «Per essere atei bisogna sapere tutto – annota –. Dio soltanto è ateo. Il diavolo è il più grande credente, e ha le sue buone ragioni per esserlo». Ancora inedito in Italia, nei mesi scorsi
A Prayer Journal (“Un diario di preghiera”) è stato pubblicato in America da Farrar, Straus & Giroux, l’editore storico della scrittrice. La curatela è dello stesso Sessions, che della scrittrice non è solo uno dei critici più accreditati, ma fu anche amico personale. «Flannery si mise in contatto con me dopo aver letto una mia recensione al
Signore di Romano Guardini», ricorda lo studioso di passaggio in Italia per partecipare al simposio sulla O’Connor svoltosi nei giorni scorsi alla John Cabot University di Roma. Attivissimo e brillante, si dimostra addirittura entusiasta nel sottolineare un dettaglio della pubblicazione di
A Prayer Journal: «Abbiamo fatto un’anteprima sul “New Yorker”, si rende conto? È la rivista dell’intellighenzia newyorkese, che non aveva mai amato Flannery e, anzi, l’aveva apertamente osteggiata. Credo che lei stessa avrebbe trovato la circostanza molto divertente». La Flannery O’Connor di cui parla Sessions è una donna spiritosa, con una spiccata predilezione per i nomignoli da affibbiare perfino a personaggi molto autorevoli. «Sì, ne aveva coniato uno per il suo vescovo – confessa l’amico –. Ma non dimentichiamo che in quegli anni i cattolici avevano vita particolarmente difficile nel Sud degli Stati Uniti. Lì il sentimento religioso dominante era e continua ad essere quello del protestantesimo evangelico. Essere cattolico significava trovarsi in una condizione di minoranza, per certi aspetti addirittura di emarginazione». Uno degli elementi di interesse di
A Prayer Journal sta appunto nell’incontro della giovane Flannery con un mondo molto diverso da quello in cui era cresciuta. «L’elaborazione del testo avvenne mentre la O’Connor si trovava in Iowa – spiega Sessions –. Aveva deciso di frequentare quell’università per diventare giornalista, ma cambiò presto idea e abbracciò con tutta se stessa il desiderio di scrivere narrativa. La preghiera più frequente che si incontra nel quaderno è proprio questa: caro Dio, fa’ di me una scrittrice. Ma è, da subito, un’aspirazione di tipo spirituale. Poche pagine più in là, infatti, troviamo la richiesta di essere trasformata “immediatamente” in una mistica». La pubblicazione del diario ha anche suscitato qualche perplessità, che però Sessions respinge con fermezza: «Alcuni hanno sostenuto che si trattasse di un documento privato, ma l’esame del manoscritto rivela una cura particolare – dice –. E poi, nel caso di Flannery, è sempre difficile distinguere un piano dall’altro. È un’autrice molto amata dai teologi, che nelle sue opere trovano una serie pressoché inesauribile di spunti, eppure rimane anzitutto una narratrice. Nello stesso tempo, però, ci sono diversi scrittori che, inizialmente diffidenti verso i suoi racconti, sono tornati a rileggerla dopo aver conosciuto le sue lettere e gli altri suoi scritti. L’esempio più clamoroso è quello di Graham Greene, che non riusciva a cogliere il controcanto ironico dello stile di Flannery, ma divenne suo ammiratore grazie alla lettura dei saggi, da lui considerati un modello di eccellente teologia». In
A Prayer Journal ricorre spesso l’invocazione a Nostra Signora del Perpetuo Soccorso, l’icona orientale venerata nella chiesa romana di Sant’Alfonso all’Esquilino. Ma c’è un’altra immagine sacra che lega Flannery O’Connor a Bill Sessions: «Ha presente il volto del Cristo bizantino che nel racconto “La schiena di Parker” il protagonista si fa tatuare sulle spalle? – chiede – Ero in Grecia con mia moglie, originaria di quel Paese, e abbiamo mandato a Flannery una cartolina raffigurante il
Pantocrator del monastero di Daphni, presso Atene. L’immagine del racconto è quella». L’intreccio fra letteratura e teologia si fa ancora più fitto, dunque, ma Sessions rimane sulle sue posizioni: «Invito sempre a leggere i testi con attenzione. Poi, nel caso, si può tentare di interpretarli – ripete –. Anche nel diario Flannery considera la scrittura come un’opera di artigianato. Sarà probabilmente per questo che oggi, nelle università americane, i suoi libri sono studiati nei corsi di scrittura creativa più che in quelli di letteratura».