Agorà

Intervista. Finocchiaro: «Le supplici? Donne rivoluzionarie»

Giuseppe Matarazzo sabato 6 giugno 2015
«Cinquanta donne migranti costrette a sfuggire all’oppressione di cinquanta uomini senza amore. E un popolo lontano che capisce e accoglie. Le Supplici è una delle tragedie più antiche (fu rappresentata per la prima volta al teatro di Dioniso ad Atene nel 463 avanti Cristo, ndr). Eppure è una delle più attuali. Ci sono due drammi di questo nostro tempo: la violenza e la prevaricazione sulle figure femminili e le tragedie del mare». A capo di queste donne “rivoluzionarie” c’è Donatella Finocchiaro, la corifèa dello spettacolo diretto da Moni Ovadia in scena al Teatro greco di Siracusa, nel 51° Ciclo di rappresentazioni classiche (fino al 28 giugno, www.indafondazione.org). «Sono donne a metà fra baccanti e supplici. Perché in realtà di supplichevole hanno poco. Sono donne piene di rabbia, che ringhiano, che si ribellano alla violenza», aggiunge l’attrice catanese che proprio nella cavea siracusana debuttava 13 anni fa. Era ancora ai primi passi di attrice, con una laurea in giurisprudenza in tasca, divisa proprio in quei giorni di maggio del 2002 fra la partecipazione a Cannes con il suo primo film, Angela di Roberta Torre, e i due mesi in scena con la celebre trilogia di Luca Ronconi, a Siracusa, come corista nelle Rane, Le Baccanti e Prometeo. «Provavamo già da febbraio e il 7 giugno dovevo andare alla presentazione del film al Festival. Avevo chiesto un permesso a Ronconi, me l’aveva negato, non potevo mancare agli spettacoli già in corso. E invece furono le mie colleghe del coro a chiedergli con una lettera accorata di fare un’eccezione, perché quell’impegno per me era troppo importante. Ronconi si commosse e mi lasciò andare: fu un regalo incredibile».In mezzo c’è tutta la sua carriera. E i suoi film con registi come Bellocchio, Crialese, Avati, Tornatore…«Sì, è un ritorno molto particolare che mi riporta ai miei inizi. Quel debutto, tra Cannes e Siracusa, lo considero il mio battesimo di attrice». Che ricordo ha di Ronconi?«Era uno degli ultimi maestri italiani del teatro, dopo Strehler. In quei mesi a Siracusa avevo la percezione di entrare nella storia del teatro. Io c’ero in quegli spettacoli meravigliosi. Ogni cosa era studiata nel dettaglio. Oggi invece c’è sempre poco tempo. E pochi soldi. Di quell’incontro mi è sempre rimasto il segno. E se ancora si parla della trilogia di Ronconi, un motivo ci sarà, no?».Oggi ritorna con Ovadia e delle Supplici del tutto inusuali… Anche in questa occasione, si parla di spettacolo storico.«Moni è il Re di Argo, Pelasgo, che consulta il suo popolo e accoglie. È l’immagine della democrazia e dell’accoglienza. Ed è anche lui regista che accoglie e ti accompagna. Che tira fuori il talento. È un grande accentratore, ma sa scegliere gli elementi della compagnia e farli funzionare».“Zeus posa i to occhi ’capu sta genti, ca supplicanti dumanna aiutu ppi non spusari l’omu parenti. Parti emigranti ppi n’autru statu...”. Così comincia la tragedia greca. In siciliano. Un vero azzardo…«La versione dialettale e “cantata”, curata da Mario Incudine e Kaballà, è una novità assoluta. Una rivisitazione forte, certo, che va oltre gli schemi classici. La tragedia è stata riscritta in terzine. C’è un cantastorie. E noi corifee in effetti, quasi non recitiamo. Cantiamo. Siamo al limite del musical. Ma non si snatura la tragedia. C’è l’essenza, l’anima, il sentimento delle supplici: donne migranti, che scappano; la violenza; la fuga; l’accoglienza. C’è tutto in questa cantata. Che parla a tutti. E che coinvolge le migliaia di persone che ogni sera gremiscono questo grande teatro aperto. Ascoltare u cuntu di Eschilo è un’esperienza culturale per gli spettatori che arrivano qui da tutto il mondo».Cosa ci insegna questa tragedia, mentre ogni giorno arrivano nelle nostre coste i barconi della speranza e della disperazione?«Che il re, superata la titubanza iniziale, davanti a queste donne, apre le braccia. E dà loro le case, i palazzi più belli. E dice: “Questa è casa vostra”. È uno spettacolo necessario, direi, oggi. Che Ovadia ha scelto di attualizzare anche con una metafora finale fortissima: tolti velocemente gli abiti di scena, usciamo per salutare il pubblico vestiti con una maglietta o una giacca a vento, simulando gli sbarcati del giorno prima. Mentre dagli spalti si alzano ragazzi africani».Ovadia ha detto di lei che è una «guida carismatica. Con una determinazione che viene dall’alto». «Interpreto una corifèa e invoco Zeus, Apollo, Posidone, tutti gli dei. In realtà questo teatro ti dà una forza, una magia... È un luogo sacro». Il tema dell’immigrazione non è nuovo per lei. In Terraferma di Crialese era un’isolana con una voglia di riscatto alle prese con una donna sbarcata.«È il conflitto dei lampedusani che vogliono accogliere, ma fanno il conto con i disagi e l’impotenza. E diventa simbolo di un conflitto. Ma a vincere è il gesto dell’abbraccio».E poi c’è la sua storia di “migrante”. Il destino di tantissimi siciliani che per realizzare i sogni devono lasciare la propria terra. C’è un docufilm Andata e Ritorno in cui debutta alla regia e intervista artisti del calibro di Consoli e Battiato. Catanesi, andati e tornati. Come lei.«È un lavoro che mi ha coinvolto molto personalmente (comprato dalla Rai, andrà in onda prossimamente, ndr). Il mio andare e tornare. Da/a Catania. Dopo essermi trasferita a Roma, due anni fa ho deciso di tornare sotto l’Etna, sì. Qui è nata Nina (avuta con il regista, anche lui catanese, Edoardo Morabito, ndr), la mia bimba di dieci mesi, che per tutte le prove e ora in scena mi accompagna al teatro greco. E applaude e ride. E canta. E respira l’aria del Mediterraneo. Però…»Però?«Sto già pensando di ripartire. Ho fatto i conti con le difficoltà di una volta, con una piattezza culturale che mi impedisce di crescere. Catania, dopo gli slanci degli anni Novanta e dei primi anni del Duemila, si sta di nuovo adagiando, manca la linfa vitale per generare nuova creatività. Mi sento in periferia. Non basta il sole e il mare per sentirsi vivi. Va bene in estate. Poi, non possiamo andare in letargo. Questo mi fa stare male. E con dolore, a settembre, probabilmente lascerò ancora la mia città».