Appena finisce l’ascolto di
E tu lo chiami Dio, il brano che Finardi porterà a Sanremo, volto la testa verso Eugenio e lo trovo in lacrime. Se non lo conoscessi da oltre vent’anni, penserei a un colpo di teatro o a un gesto di vanità dell’artista che si commuove davanti alla propria bravura. Ma siccome lo conosco, so che la sua commozione è sincera. E non autoreferenziale. «Adoro il modo in cui Boccadoro l’ha orchestrato. C’è quel passaggio di oboe che mi commuove». Il brano è molto intenso e Finardi lo canta in maniera splendida. «Se l’avessi cantato in Sol avrebbe fatto ancor più effetto. Ma sarebbe suonato deprimente. Ho scelto il La maggiore perché è la tonalità di apertura verso gli altri». Ecco:
E tu lo chiami Dio è un abbraccio in musica. E un invito a chi crede a usare la fede per unire e migliorare il mondo e non per dividerlo.
Provoco Eugenio: è un bel paradosso dei nostri tempi che a cantare a Sanremo il valore delle fedi sia un’artista non credente. «No, perché tanti non credenti come me, si interrogano molto spesso su Dio. Noi musicisti abbiamo da sempre un rapporto speciale con la trascendenza. Io, poi, è da quando sono bambino che frequento il repertorio sacro».
D’accordo, ma chi te l’ha fatto fare di affrontare un tema così delicato?«Il merito è di Roberta Di Lorenzo, una cantautrice di origini molisane. Tempo fa mi si era proposta come corista. Non mi convinceva, ma quando ho sentito le cose che scriveva ho deciso di produrre il suo primo album. È lei l’autrice del pezzo».
Vuoi dire che non è nato come una «furbata» Sanremese?«Io furbate non ne faccio. Da anni vado avanti per la mia strada. Da indipendente. Faccio dischi dedicati al fado, concerti con brani sacri, album di blues, uno spettacolo su Vysotsky, la voce narrante in un opera per la Scala, concerti per non udenti. Faccio solo cose di valore e che mi piacciono. Non inseguo più il successo. Uso l’arte per stare bene e far star bene. Ci hai fatto caso a quali sono le parole più importanti della musica?»
No, quali sono?«Accordo, armonia, concerto. Tutti termini che indicano l’unione, la concordia, lo stare insieme. Tutti termini che sono legati profondamente anche alle fedi. Perché Dio, il vero Dio, è come l’amore. E senza l’amore si vive male. E si vive soli. Ma la fede, come l’amore, è un dono. Per questo anche se non credi non puoi non provare un senso di afflato con l’assoluto. Pensa che prima di accettare la proposta di Morandi di portare questo brano a Sanremo mi sono chiesto: non è che sto nominando il nome di Dio invano?».
E cosa ti sei risposto?«Che questo brano è esattamente contro chi nomina invano Dio e chi usa la fede, qualunque fede, come un arma».
Di questi tempi anche la laicità viene spesso brandita come un arma contro la fede.«È vero. Ed è assurdo. Viviamo tempi così difficili che dobbiamo fare tutti uno sforzo per guardare in alto. Per alzare il livello dei nostri pensieri e dei nostri dibattiti. Questa canzone potrà piacere o meno, ma punta in alto. È un invito a trovare punti di unione invece che di divisione».
A luglio compirai 60 anni: che effetto ti fa questo traguardo?«Da tempo accetto l’età che ho. Non mi tingo i capelli, non nascondo le rughe e non mi vesto in modo strano. Non cambio ciò che sono. E non ho paura dei 60 anni. Diciamo che, arrivato a questo punto, mi affido. Come un credente».
Cosa ti aspetti da Sanremo: non vorrai vincere come Vecchioni l’anno scorso?Non ci penso nemmeno a vincere. E non era nei miei programmi andare a Sanremo. È successo per caso. Dal Festival mi aspetto una cosa molto semplice. Forse, piccola. Ma non banale. Oggi mi sono fermato in un bar e la barista dopo avermi riconosciuto mi ha chiesto se mi ero ritirato. Sai, a furia di album di fado, concerti sacri e album blues, il grande pubblico ha perso i contatti con me. Ecco: vorrei che Sanremo dicesse al grande pubblico che Finardi è vivo, fa ancora musica e sta molto bene.