La musica digitale è stata la morte del supporto su disco. Che poi non è detto, perché il vinile sta tornando di moda. D’altronde quella discografica è stata la prima industria pesantemente colpita dalle nuove tecnologie. E non sarà l’ultima. Ma è stata anche una delle prime industrie a capire che la vendita dei dischi era diventata obsoleta. Sono figlio di un tecnico del suono, diventato produttore di nastri magnetici, e sono vecchio abbastanza per ricordarmi che qualche anno fa l’oggetto di culto era il walkman. Ricordo anche che i primissimi walkman avevano l’attacco per due cuffie, per condividere l’ascolto, e strano che nessuno ancora abbia pensato di riproporli! Ormai l’ascolto è un’esperienza solitaria. In realtà, parlando di musica digitale e della mia generazione, sono convinto che i nativi digitali siamo noi. Lo penso perché abbiamo sofferto con le apparecchiature analogiche: per avere una foto dovevamo aspettare una settimana. La fotografia digitale è una rivoluzione, qualcosa di impensabile e misterioso. Ho comprato una Go-Pro e non l’ho ancora usata, perché mi mette soggezione! C’è però anche il dolore di vedere come il digitale abbia ucciso una certa qualità sonora. Mia figlia ha sedici anni e ha acquistato l’ultimo disco degli One Direction masterizzato mp3, che vuol dire “succhiargli” via tutta l’anima. Perché l’mp3 e una traccia digitale a cui e stato tolto tutto quello che non si sente, quindi l’aria! È come togliere da una foto lo sfondo, o da un quadro di Caravaggio tutto ciò che non è la faccia dei protagonisti: che effetto farebbe? Nel frattempo l’hifi è diventato un prodotto di altissima gamma, con impianti da 100 mila euro. Tutto questo, per chi come me tiene al suono e lo cura, è un effetto deleterio. L’effetto positivo, invece, è che posso innamorarmi di una canzone e cercare immediatamente il link su YouTube... Che cosa diventerà questo in futuro? Si ascolterà sempre più musica, e si potrà sempre più fare musica. Un tempo si doveva fare una certa gavetta prima di arrivare a registrare. Adesso tutti possono realizzare musica in casa. La mia prima musica ha avuto forse il difetto di distinguersi per la troppa originalità. Poco tempo fa ho recuperato un hard disk dove erano stati digitalizzati i master dei miei primi dischi e mi sono reso conto che erano incredibilmente originali. Ovviamente c’era una scuola dietro. La mia scuola era anzitutto mia madre, una cantante lirica americana, ma considero miei maestri anche tutti quelli che ho ascoltato. Il mio primo disco è stato Horowitz che suonava Domenico Scarlatti, grandissimo musicista napoletano. Poi Mozart, Bach, la musica barocca... E la musica nera, che all’inizio non sapevo fosse blues. Quando avevo otto anni mia zia ha portato dall’America un disco che aveva in copertina un uomo nero, dalla voce roca, calda, profonda: era Harry Belafonte. Sempre la stessa zia ogni anno spediva i dischi del Newport Folk Festival: così ho scoperto artisti come Pete Seeger e Woody Guthrie. Nel 1965 avevo tredici anni, ero in America da mia nonna e proprio quell’estate uscì
Satisfaction dei Rolling Stones: fu amore a prima vista. Da una parte, quindi, c’era la musica classica, dall’altra, grandi maestri più che musicali, come Bob Marley... C’era il sogno di cambiare il mondo, un sogno di giustizia e di libertà. Questo sogno aveva bisogno di oratori, di musicisti che scrivessero canzoni. E allora l’ho fatto! Quando ho inventato “Finardi”, l’ho fatto perché fosse utile al movimento giovanile. Per me la musica doveva servire a qualcosa. L’arte deve servire a qualcosa. Si certo, c’è il fatto estetico, ma è importante dare un segnale e creare contenuti. Se Mandela ha catturato l’attenzione dei mezzi di comunicazione di tutto il mondo ed è entrato nella storia, è anche grazie a tanti artisti che non hanno mai smesso di parlarne. Ricordo che negli anni Settanta il rapporto con la mia casa discografica era di grande libertà. Poi sono arrivate le megaproduzioni: in Italia la svolta degli anni Ottanta e stata lanciata dal gigantesco successo di Battiato. In quel periodo i soldi giravano, cominciavano i grandi tour, si facevano i primi esperimenti di marketing. I cantanti erano gestiti da personaggi che erano si squali, ma che avevano comunque un istinto unico e una passione vera. Angelo Carrara, che e stato il mio manager per decenni, sapeva creare il successo, ha scoperto Ligabue, Battiato, Alice, Povia e tanti altri. Oggi pochi si occupano di fare i talent scout. Ci sono invece i talent show, che ormai sono un dato di fatto: non si possono evitare, proprio come internet. Non ti permettono però di essere una personalità unica, originale. (...) Il fatto è che oggi si sono perse le ombre e le sfumature, arriva solo il segnale primario. E immediato, sempre più forte, più alto di volume, ma con meno chiaroscuri. E tutto più diretto, compresso, monocromatico. Bisogna essere un marchio istantaneamente riconoscibile. Questo succede anche nei brani. Un grande masterizzatore americano mi ha fatto notare come i grandi successi odierni si basino su una sola forte intuizione.
Happy di Pharrel Williams, ad esempio, è una sola frase musicale che va avanti per qualche minuto. Mozart ogni venti secondi sviluppava una nuova variazione. Nelle canzoni è successo quello che sta succedendo in questo periodo storico: tutto è ridotto a slogan, la politica a una frase a effetto, a stimoli viscerali... (...) Viviamo un perenne ottundimento, ma poi da parte delle giovani generazioni c’è una profonda ricerca di senso, di contenuti veri, di spiritualità, di qualcuno che esca da questo meccanismo di liofilizzazione della realtà. Purtroppo le fondamenta della musica pop italiana sono una menzogna. La vera musica popolare italiana è la musica napoletana classica. I mitici anni Sessanta musicali sono canzoni americane tradotte malissimo ed eseguite peggio, insomma cover. Sono poche le canzoni davvero italiane di quegli anni. Solo alcuni grandi autori, come Carlo Alberto Rossi, Modugno, Endrigo, Bindi. La cultura non è fatta di nozionismo idiota, ma di collegamenti. L’attuale scena musicale è basata su queste radici false, fragili. Ora non c’è una vera musica italiana. Forse solo la scena indie, alternativa... Ma troppi sono solo cloni. Battisti era uno veramente originale. Il problema sta anche in una certa visione culturale. Quella che, per esempio, non riconosce in Claudio Baglioni uno dei migliori cantautori, la cui musica è radicata nella tradizione italiana. Quando le tue radici non sono salde, come fai a giudicare se qualcosa è cultura? Se sei di destra, la cultura rompe le balle, a sinistra, invece, se rompe le balle è cultura. Insomma, sempre li finiamo: la cultura dev’essere noiosa! Battiato, che è un lucido intellettuale della Magna Grecia, è riuscito a usare tutto ciò con grande ironia. La truffa è un falso intellettualismo. E poi, si deve sempre appartenere a qualche cordata o gruppo di potere, anche senza merito, e questo sta ammazzando l’Italia come nazione: la totale mancanza di una società civile vera, una borghesia che senta la responsabilità di farsi classe politica e dirigente.