Finali Nba: Cleveland Cavaliers-Golden State Warriors. LeBron James: il Prescelto è diventato Re
Salvatore Maria Righilunedì 20 giugno 2016
Quando ti chiamano “The Chosen one” fin da quando sei un ragazzino, non è che nella vita hai molte scelte. Puoi solo stupire e devi semplicemente essere il migliore. Ma c’è molto altro, nella notte magica di LeBron James che in riva al Pacifico, ad un continente di distanza dal nord-est e dal nativo Ohio, da “Prescelto” è diventato definitivamente “The King”, il re. Ha vinto il titolo Nba, il terzo, è diventato per la terza Mvp delle finali, ha riempito il carniere di numeri e di record che a metterli in fila ci vuole un ragioniere: 109 punti nelle ultime tre partite, per dire, o i 208 totali nelle sette della serie, sono cifre mai viste nemmeno a questi livelli. Il Prescelto ha battuto a casa propria Stephen Curry che non è proprio l’ultimo che passa.
L’idolo dell’Oracle Arena, quella marea gialla di tifosi che da quelle parti sono anche i primi patrioti a sostenere il Team Oracle Usa nelle ormai fantascientifiche imprese di America’s Cup: Curry era il campione in carica, dopo aver chiuso con Golden State una stagione da 73 vittorie (record senza precedenti nella Lega). Il giocatore di basket che sta cambiando il modo di giocare a basket, perlomeno negli occhi di chi lo vede sul satellite dalla Cina al Brasile, perché a vederlo prendere la palla e tirare, con velocità da cobra e facilità disarmante, sembra di essere alla Playstation, con la consolle in mano e i bottoni da schiacciare.
Lui contro LeBron, come nelle migliori sceneggiature americane dove non bastano due grandi rivali, ci vogliono anche due eroi che avanzano dallo sfondo al primo piano. Le finali tra i Warriors e i Cavaliers erano anche questa specie di spareggio tra migliori, e come sempre ne doveva rimanere uno solo. E’ rimasto LeBron, Curry ha fatto una serie mezzo zoppo per guai al ginocchio, stanco, non è davvero mai stato se stesso ma alla fine ha detto semplicemente “la sconfitta ci sta, io stesso non ho mai giocato come so e come posso, ma ci servirà per ripartire ancora più compatti”, perché la cultura sportiva americana avrà tanti difetti, ma agli arbitraggi e al manuale delle scuse non ricorre quasi mai nessuno.
Ma LeBron ha fatto anche di più, nella notte che ha confermato la dimensione planetaria della Nba, il concentrato più spettacolare e fruttuoso (alla voce diritti tv e merchandising) di quello che si chiama sport ai tempi della globalizzazione: football americano e baseball, fuori dagli Stati Uniti, sono molto lontani dai fatturati della National Basketball Association. Lebron ha chiuso un cerchio che non era mai riuscito a nessuno, per un motivo statistico e per motivi romantici. Nessuna squadra si era mai rialzata da un 1-3 nella serie finale, Cleveland invece ha vinto le successive tre partite, chiudendo con un 4-3 che non ha nulla di calcistico, se non il fatto che a 53” dalla fine della maratona, erano pari su tutto: 89-89 nella partita e 699-699 nel punteggio globale delle sette partite. LeBron ha spezzato questo equilibrio in società con Kyrie Irving, suo il tiro da tre punti (in faccia a Curry, perché c’è una spietata legge di natura nelle cose di sport) decisivo, ma ancora più decisiva e sicuramente spettacolare la stoppata – “chasedown” – con cui poco prima LeBron ha letteralmente incollato il pallone al tabellone, quando Iguodala era lanciato per dare a Golden State un vantaggio forse decisivo.
Quel suo volo non d’angelo, ma da Apache, gli elicotteri da guerra, tutta la potenza dei suoi 203 centimentri sprigionata camminando in aria e arrivando col viso al ferro, alto tre metri e zero cinque, sono un po’ la fotografia di un ragazzo divenuto uomo con uno solo obiettivo, diventare quello che tutti gli chiedevano di essere per l’immenso dono che gli ha dato madre natura. Lui che non ha avuto un’infanzia molto facile, tirato su dalla mamma con altri fratelli non certo navigando nell’oro, e ora è il quarto sportivo più pagato al mondo dopo Cristiano Ronaldo, il pugile Mayweather e Messi.
Lui che da Akron, un sobborgo di Cleveland, voleva entrare nella Nba già a 17 e quando finalmente è arrivato ai Cavaliers, un idolo locale in una delle multinazionali chiamate franchigie Nba, non ha potuto far altro che vedere vincere gli altri. Sette anni coi Cavs, poi nel 2010 il trasferimento a Miami dove, ormai consacrato, ha vinto 2 titoli in quattro anni. Il suo ritorno a casa nell’Ohio due anni fa, nel 2014, lui l’ha spiegato proprio così: per andare a finire il lavoro lasciato a metà. Per riportare Cleveland, la sua città e la sua terra, sul tetto del mondo, visto che era dal 1964 che la città non vinceva un titolo nello sport professionistico. Gli ultimi furono i Browns nella Nfl, poi gli anni della crisi, iniziati già con la Grande Depressione che proprio in riva al lago Erie aveva colpito, prima di una lunga serie di città americane messe in ginocchio dalla crisi. La chiamavano da allora “The mistake by the lake”, l’errore sul lago, e quella stoppata di LeBron, mezzo secolo dopo, è probabilmente anche il modo per cancellare quell’errore e per regalare alla sua città una nuova epoca. E la chiamano (solo) pallacanestro.