La Francia è, insieme con l’Italia, il paese nel quale si insegna più filosofia nelle scuole, ma la si insegna in modo diverso che in Italia. Da noi si insegna soprattutto storia della filosofia – per l’identificazione della filosofia con la sua storia, risalente a Giovanni Gentile, autore della riforma della scuola italiana in gran parte ancora in vigore –, mentre in Francia si insegna quella che noi chiameremmo filosofia teoretica o morale, cioè una discussione sui problemi filosofici, che trova espressione nella redazione di una dissertazione scritta, dove lo studente espone il suo punto di vista, la sua «filosofia».Questa concezione si ispira, come è noto, al detto di Kant, secondo cui insegnare filosofia significa insegnare a «pensare con la propria testa». Si tratta della tipica concezione dell’illuminismo, del quale Kant è stato l’espressione più alta, la quale presuppone – come è già stato scritto – due condizioni fondamentali: 1) che si abbia una testa e 2) che questa sia davvero propria. La prima condizione, apparentemente facile da accettarsi, è in realtà difficile da realizzarsi, perché, con tutto quello che è stato detto dai filosofi, è difficile essere capaci di dire qualche cosa di veramente nuovo, o originale. La seconda è divenuta difficile oggi, a causa di una diffusione dei mezzi di comunicazione di massa (soprattutto televisione, cioè pubblicità, e Internet) senza precedenti nella storia, per la quale siamo tutti terribilmente condizionati dalle teste altrui senza che nemmeno ce ne accorgiamo.Più realista, e meno illuminista, di Kant è stato Hegel, il quale ha criticato i pedagogisti suoi contemporanei che volevano insegnare a «pensare con la propria testa», a inventarsi ciascuno una propria filosofia, come se la filosofia non fosse mai esistita prima e quindi non esistesse già. Per filosofia Hegel intendeva la verità, iscritta nella mente di Dio (l’Idea) e realizzata nel processo della natura e nello spirito. Più modestamente la filosofia si può intendere come il pensiero dei grandi filosofi, che è bene conoscere e col quale è bene confrontarsi, cioè dialogare. Quindi va bene l’insegnamento italiano della storia della filosofia, purché questa non sia fine a sé stessa, ma insegni, appunto, a conoscere i classici e a «confilosofare» con loro sui loro e sui nostri problemi.La ragione per cui questo invito non vuole invitare tutti a diventare filosofi è che di filosofi, nella società di oggi, ce ne sono anche troppi. Ciò è provato da un lato dalla straordinaria abbondanza, per non parlare di eccesso, di pubblicazioni cosiddette filosofiche, di interventi di filosofi nei giornali sia quotidiani che periodici, di partecipazione di filosofi ai talk-show televisivi, di convegni, incontri, corsi, festival, vacanze filosofiche (tutti peccati da cui anche chi scrive non è esente), insomma da una vera e propria «moda» della filosofia. Ma ciò che è provato, dall’altro lato, anche dalla terribile difficoltà, da parte dei laureati in discipline filosofiche, di trovare sbocchi professionali. Quello più tradizionale, cioè l’insegnamento, nella scuola secondaria e nell’università, è venuto sempre più restringendosi e sta quasi scomparendo. Altri sbocchi, come consulenze editoriali, gestioni di personale di aziende, progettazioni culturali di enti pubblici, e simili – tutte attività in cui i laureati in filosofia riescono in modo eccellente, a causa della loro apertura mentale –, pur essendo reali, sono tuttavia circoscritti a pochi casi. La conferma di queste difficoltà è la nascita di una nuova professione come la consulenza filosofica, che però difficilmente risolverà il problema della sovrabbondanza di laureati.Pertanto il mio invito è non a diventare tutti filosofi, ma a fare tutti esperienza, almeno una volta nella vita, di che cosa significa affrontare un problema di verità, o un problema di senso, in modo filosofico, ovvero contando non su una fede religiosa, su un’ideologia, su un’autorità, ma sulle proprie risorse esclusivamente umane, che sono la ragione e l’esperienza. Esso può trovare qualche accoglienza non nei corsi di laurea universitari in discipline filosofiche, ma nella scuola secondaria, dove non si studia per diventare tutti filosofi, e nei corsi di laurea universitari di discipline non filosofiche (sia umanistiche che scientifiche, e giuridiche e mediche). Quando, una decina di anni fa, un ministro dell’istruzione italiano prese in considerazione la possibilità di introdurre elementi di filosofia anche nel primo biennio della scuola secondaria, quello uguale per tutti la Società Filosofica Italiano votò una mozione in cui, approvando l’iniziativa, affermava solennemente il diritto di tutti i giovani italiani a fare esperienza, almeno una volta nella propria vita, di che cosa significa affrontare un problema di verità o di senso in modo filosofico.Io sono convinto che questo sia veramente un diritto, e che quindi qualche elemento di filosofia, con programmi diversi, con orari diversi, con metodi diversi, debba essere insegnato in tutte le scuole italiane, sia liceali che professionali, in modo che tutti i giovani sappiano che cosa vuol dire «filosofia». E poiché, lo ripeto, non credo che tutti debbano «fare della filosofia», il modo migliore in cui possono fare questa esperienza è «confilosofare» con i classici. Del resto, non si ritiene importante far conoscere ai giovani la letteratura, la poesia, la musica, l’arte in genere? E come lo si fa? Non certo facendo in modo che tutti diventino romanzieri o poeti o musicisti, ma facendo loro leggere i classici della letteratura e della poesia, ascoltare la musica classica, visitare i musei o i monumenti dell’arte classica. Perché non si deve poter fare la stessa cosa con la filosofia?