Cinema. Quando i film raccontano la scienza. E l'anticipano
Benedict Cumberbatch interpreta il matematico Alan Turing nel film diretto da Morter Tyldum nel 2014 “The Imitation game”
Cinema e scienza: a prima vista, accostarli potrebbe apparire piuttosto audace, o perfino una forzatura. In fondo, si dirà, cosa ha a che fare il mirabolante mondo del cinema – dove andiamo per sognare, proiettare i nostri desideri ed esorcizzare, perché no, le nostre paure – con quello della scienza, dove le emozioni sembrano non avere spazio e tutto si riduce a precise e rigorose leggi matematiche? Forse però, a ben guardare, l’accostamento è meno audace di quanto si pensi. E per la semplice ragione che il cinema è legato alla scienza fin dalle sue origini: il cinematografo brevettato dai fratelli Lumière nel 1895, la macchina cioè che consentiva di registrare immagini in movimento e proiettarle su uno schermo, era più che mai un prodotto tecnologico, che scaturiva da vent’anni di indagini scientifiche dedicate alla sua realizzazione. Non stupisce quindi che la nuova tecnologia venisse immediatamente usata nei laboratori di fisica per filmare ricerche ed esperimenti, o nelle sale operatorie per documentare interventi complessi, come la spettacolare separazione di due gemelle siamesi effettuata nel 1898 dal chirurgo Eugène Louis Doyen. Ma c’è di più.
Se agli albori il cinema è considerato uno strumento scientifico, anzi lo strumento ideale per riprendere in modo oggettivo i fenomeni osservati, nel diventare, quasi in contemporanea, una nuova forma d’arte e di spettacolo, ossia un nuovo mezzo narrativo, ha subito iniziato a occuparsi di scienza, attribuendole capacità conoscitive e possibilità esplorative sconfinate. Così, prima del memorabile allunaggio del 20 luglio 1969, già nel 1902 Georges Méliès fa proprio l’antico sogno del Viaggio nella Luna e, ispirandosi al romanzo Dalla Terra alla Luna (1865) di Jules Verne, racconta in appena 15 minuti l’avventurosa spedizione di sei scienziati che, a bordo di una navicella- proiettile, vengono sparati sul nostro satellite da un enorme cannone.
Il legame tra cinema e scienza è dunque antico quanto il cinema stesso, e non si è mai interrotto, sia perché gli sviluppi tecnico-scientifici (dal CinemaScope agli effetti speciali e alla computer graphics) hanno condizionato e continuano a condizionare la stessa evoluzione del mezzo cinematografico, sia perché il loro proficuo dialogo ha sempre alimentato l’immaginario collettivo. E per averne un’idea nulla è più istruttivo della piacevole lettura del libro di Marco Ciardi e Andrea Sani, Incontri ravvicinati tra scienza e cinema (Hoepli, pagine 232, euro 15,90), titolo che è un indubbio omaggio al celebre film fantascientifico Incontri ravvicinati del terzo tipo (1977) di Steven Spielberg.
ll futuro distopico rappresentato in “Metropolis”, film del 1927 di Fritz Lang che ha ispirato opere come “Blade Runner” - archivio
Ciardi e Sani, tanto vale dirlo subito, non entrano nel dibattito sullo statuto estetico, linguistico e filosofico dell’immagine cinematografica, né in quello sul rapporto tra cinema e neuroscienze. L’obiettivo dei due autori è un altro e subito dichiarato: «Mostrare le varie immagini della scienza che emergono da alcuni film particolarmente significativi ». E per farlo, ben consapevoli che i film analizzati sono il frutto dei loro gusti e delle loro preferenze, propongono una sorta di tassonomia, individuando nove itinerari che aiutano a orientarsi e riflettere sui vari modi in cui la settima arte racconta la scienza: dal genere biografico (il Galileo di Liliana Cavani del 1968 e quello di Joseph Losey del 1975, il Freud. Passioni segrete di John Huston del 1962, il recente e super premiato Oppenheimer di Christopher Nolan) fino al cinema di animazione della Disney e agli anime giapponesi (in particolare di Hayao Miyazaki, che affronta i temi della tecnologia e dell’ambiente).
Ma qual è, appunto, l’immagine che il cinema di finzione offre della scienza? E in che modo sono rappresentati gli scienziati? Come è facile intuire, non è possibile ricavare dai film un’immagine univoca della scienza. Per cui, se in Jurassic Park (1993) si evidenziano le conseguenze disastrose che alcuni esperimenti scientifici (far ritornare in vita i dinosauri) sono in grado di provocare, in Interstellar (2014) di Nolan è invece la scienza a salvare l’umanità dal rischio dell’estinzione. E lo stesso avviene nella raffigurazione degli uomini di scienza, dove si va, semplificando all’estremo, dallo scienziato pazzo e criminale (il professor Rotwang in Metropolis di Fritz Lang del 1927, il dottor Victor Frankenstein nell’omonimo film diretto da James Whale nel 1931, il mad doctor protagonista de Il dottor Stranamore di Stanley Kubrick del 1964), allo scienziato distratto e/o geniale (il chimico Barnaba Fulton ne Il magnifico scherzo di Howard Hawks del 1952, il ricercatore David Levinson in Independence Day di Roland Emmerich del 1996), fino allo scienziato isolato e incompreso (come Emmett Brown, detto “Doc”, nella trilogia di Ritorno al futuro di Robert Zemeckis, o l’astrofisica Jan Foster in Thor di Kenneth Branagh del 2011, di cui sono poi usciti tre sequel, tutti tratti dall’omonimo fumetto della Marvel).
A fronte di questo caleidoscopio di immagini, ciò che comunque sembra trasparire dagli incontri ravvicinati presi in esame da Ciardi e Sani è l’idea che anche nel cinema si rifletta il problema sempre attuale dell’utilizzo delle acquisizioni scientifico-tecnologiche, ovvero dello stretto legame che sussiste (o dovrebbe sussistere) tra scienza ed etica, tra progresso e responsabilità politico-sociale.