Agorà

Finalmente i figli del vento

Alberto Caprotti venerdì 3 agosto 2012
​Scusate il ritardo, i Giochi cominciano oggi. Lo pensano i puristi dell’olimpismo, lo dice la storia. Dopo volani, freccette e spadini, ora si fa sul serio. Nessuno si offenda, ma arriva la regina. Si chiama atletica, vale almeno due cerchi su cinque, da sola porta in pista 2.150 sudditi, record assoluto di partecipanti. E, soprattutto, lucida le scarpe al principe dello sport moderno, Usain Bolt, extraterrestre giamaicano, l’uomo più veloce della terra. Domenica sera (ore 22.50 in Italia), il mondo si fermerà per 100 metri. Un soffio di fiato, meno di dieci secondi che rinchiudono la storia: Bolt contro Blake, l’essenza della sfida. L’Olimpiade non è solo loro, certo. Ma una buona parte sì. Hanno già soprannomi distintivi: Bolt, “il fulmine”, contro Blake, “la bestia”. Sarà una sfida omerica, made in Giamaica. Bolt è il padrone della velocità (100 e 200), degli ori olimpici, del cronometro fermato dove nessuno prima di lui ha osato. Ma l’uomo che ha riportato l’atletica sui giornali e in tv, il faraone della pista, ha fallito l’ultimo mondiale a Daegu (squalifica per falsa partenza). E nelle uscite più vicine a Londra non ha entusiasmato, perdendo per due volte da Yohan Blake, giamaicano come lui, astro nascente prepotente ed esplosivo. Difficile prevedere tempi strepitosi, complice l’umidità e il freddo serale di questa strana estate londinese. Ma domenica farà caldo comunque, in pista e fuori. Ci sarà tempo per loro. I Giochi dell’atletica iniziano oggi con heptathlon, peso e le batterie dei 100 metri donne, con al via velociste improbabili magari, ma cariche di storie personali forti. Come quella di Tamina Kohistani, 23 anni, afghana. Minacciata di morte in patria perché ha osato qualificarsi per le Olimpiadi degli “infedeli”. Ci sarà comunque Tamina. Come ci sarà Oscar Pistorius, il primo amputato ad entrambe le gambe della storia dello sport a disputare una gara olimpica con i normodotati: domani il giorno del suo esordio, 400 e 4x100 le sue gare. Assolutamente da non perdere, anche se lui ha già vinto. Ma questa sera è subito il tempo per la distanza più lunga della pista. Parte da lontano la rincorsa, dai 10.000 metri donne, dai piedi leggeri e instancabili dell’Africa che corre. Kenia contro Etiopia, un mondo a parte, irraggiungibile per i bianchi, terra che ammette un solo estraneo. In campo maschile si chiama Mohamed Jamal: il favorito qui è un britannico. Nato in Somalia, ovviamente. Qualcosa forse sta cambiando, la globalizzazione al contrario mischia le carte. Anche il nero Kenya che vince con i suoi scheletrici mezzofondisti, alla cerimonia inaugurale ha deciso che il suo portabandiera non doveva più essere un masai, ma il nuotatore bianco, Jason Dunford. Cambiano i colori, come le bandiere. I keniani corrono, saltano, producono record: se si fermassero loro, si fermerebbero il fondo e il mezzofondo, maratone grandi e piccole abbasserebbero la saracinesca. Ventun medaglie in tutto è la previsione per questa Olimpiade: bottino notevole per i figli degli altopiani, ma che sarebbe potuto essere molto più ricco. Se non si facessero comprare. Perché l’Africa è garanzia di vittorie, ma anche le vittorie hanno un prezzo. Mille dollari al mese per tutta la vita. È il conto del tradimento o, forse, l’unico degno mezzo per avere un futuro oltre l’atletica. Lo sa bene Zenebech Tola, 28 anni, etiope, due volte campionessa mondiale nei 1.500 metri femminili e sicura protagonista nella finale del 10 agosto. Ma non cercatela nella lista dei partenti, quel nome non c’è. Da tempo corre per il Bahrain, e si chiama Maryam Yusuf Jamal. Perché il ricco Bahrain non sa correre, l’Etiopia sì. Il Bahrain ha il petrolio, l’Etiopia solo gambe da sfamare. Non è una novità di questi Giochi, già Stephen Cherono, keniano, re dei 3.000 siepi e dei 5.000 metri: anni fa inaugurò la fuga degli africani. Cambiò nome, passaporto e perfino religione per correre con i colori del Qatar. Era il 2003, nessuno aveva il suo passo: «Non l’ho fatto per soldi – disse – ma per essere rispettato, per potermi allenare meglio. Il Kenia ci fa nascere ma poi ci abbandona. Ha dirigenti sportivi corrotti, che mangiano sulle nostre fatiche. A noi non resta nulla, solo la polvere sotto le scarpe…». Ieri Cherono, oggi Mutaz Essa Barshim, 21 anni, sudanese, giovane promessa del salto in alto. Ma il Sudan è piccolo per chi insegue un’asticella da superare alle Olimpiadi, mentre il Qatar ha un emiro con altissime ambizioni. Rapimento e riscatto: agli africani cambiano nome, prospettive, bandiere. Un vitalizio, un ingaggio ricco, strutture moderne in cui allenarsi, tranquillità e futuro. Questo offre il mondo obeso allo sport dei disperati: scandalizzarsi non serve, l’olimpismo si arrende alla fame. La vera medaglia qui è la vita. Non importa con quali colori: se non corri, la perdi.