Televisione. Fiction, ecco le nuove star dell'Italia multiculturale
L’attore Miguel Gobbo Diaz, protagonista della fiction di Rai 1 “Nero a metà”
Le nuove star delle fiction italiane hanno la pelle nera e il cuore tricolore. In particolare tre affascinanti attori italiani che sono protagonisti di altrettante serie di successo che si stanno alternando in questi giorni su Rai 1. Amatissimi dal pubblico, con i loro ruoli finalmente di primo piano stanno contribuendo a scardinare molti pregiudizi. Avevamo iniziato col dottor Gabriel Kidane, giovane e generoso medico di Doc - Nelle tue mani di Rai 1 targato Lux Vide, ovvero al secolo Alberto Malanchino da Cernusco sul Naviglio (Mi); per passare a Daniele Peirò, elegante uomo di affari fratello adottivo dei protagonisti della fiction Noi prodotta da Cattleya, ancora due puntate su Rai 1, interpretato da Livio Kone da San Vittore Olona (Mi); sino ad arrivare a Malik il volitivo poliziotto in coppia con Claudio Amendola, ovvero Miguel Gobbo Diaz da Creazzo ( Vicenza) protagonista di Nero a metà, serie in 6 serate coprodotta da Rai Fiction-Cattleya, la cui terza stagione debutta il 4 aprile su Rai 1. Proviamo a conoscerli meglio.
Miguel Gobbo Diaz, poliziotto "Nero a metà"
«Raggiungere la terza serie dà tante soddisfazioni, soprattutto sono contento di vedere un attore nero protagonista di un personaggio positivo. Ha fatto capire tante cose alle persone, dando una diversa immagine della serialità» è convinto il 32enne Miguel Gobbo Diaz. «Il mio ruolo di poliziotto ligio al dovere, anche se con le sue fragilità, contribuisce a superare i pregiudizi – aggiunge –. Grazie a Nero a metà e altre serie, il pubblico ha visto che siamo in grado di interpretare ruoli diversi, poliziotti, avvocati, imprenditori e non solo delinquenti o spacciatori». Miguel a tre anni ha lasciato Santo Domingo per trasferirsi a Creazzo, un paesino in provincia di Vicenza, con la mamma dominicana e il papà adottivo italiano. Da adolescente Miguel sognava di fare il calciatore, mentre alle superiori ha scoperto il teatro durante i corsi di recitazione pomeridiani. «Sono stato completamente travolto – spiega –. Così ho studiato con determinazione fino ad essere ammesso al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma». Mai subito episodi di razzismo, spiega, anche se «da piccolo ho vissuto una sorta di spaesamento. All’asilo di Creazzo nel 1992 ero l’unico bambino scuro mentre tutti gli altri erano biondi e con gli occhi azzurri. A mia mamma chiedevo "come mai sono diverso?". "Perché tu assomigli alla nonna" mi rassicurava. A volte i pregiudizi te li crei da solo..». «Tutti abbiamo il pregiudizio verso quello che non conosciamo, inve- ce dovremmo approcciarci con amore verso il mondo» aggiunge sorridente. Ora tocca alla sua generazione affermare la realtà multiculturale dell’Italia nelle serie tv e al cinema. «Culture diverse arricchiscono il Paese. E quando sei in un Paese che sta cambiando come l’Italia, hai voglia di dare il tuo contributo ad arricchirlo». Dopo il ruolo del poliziotto Malik che in questa nuova serie «sarà più adulto e determinato», Diaz tornerà a scrivere per il teatro. «Dopo il mio primo testo La mia vita in Italia sulla mia adolescenza, ora scrivo un testo su come bisogna scegliere sempre il lato più luminoso della vita».
Livio Kone, il manager di "Noi"
«Sì, era ora. Noi è una bella fiction dove tutto è intenso e forte, e che scardina i pregiudizi. Non i soliti cliché dell’attore nero, ma un uomo di successo che è integrato perfettamente nella società». Livio Kone (al secolo Livio Madou Kone) è la rivelazione della serie, è italiano, nato a Milano nel 1994 da due genitori della Costa d’Avorio, papà meccanico e mamma che lo ha chiamato Livio come il bambino cui faceva la baby sitter. La sua prima vita, però, è stata quella di calciatore in diverse squadre fra cui il Crystal Palace in Premier League, l’Ascona e il Porza nella seconda divisione in Svizzera. «Ho imparato il calcio a 6 anni nel campetto dell’oratorio, ma ho sempre avuto una verve estroversa e comica». E quindi a 21 anni Livio Kone si iscrive a una scuola di cinema e poi si fa notare in Zero targato Netflix e Crazy for football «un film sull’inclusione che mi ha insegnato tanto» aggiunge. Infine la serie Noi, dove il suo personaggio fa i conti con le sue radici paterne. «Io mi sento lombardo al cento per cento e non ho mai avuto problemi di razzismo – ci spiega –. La società sta andando avanti e siamo noi, la seconda generazione, quella che può cambiare le cose. I nostri genitori, con i loro sacrifici, ci hanno dato la possibilità di sognare». E Livio cosa sogna? «Avere una famiglia». Intanto l’attore milanista torna al calcio: «Sto girando una serie sul calcio per la Rai che doveva essere lanciata per i Mondiali. La non qualificazione dell’Italia mi ha fatto molto male».
Alberto Malanchino, il medico di "Doc"
Reduce dall’enorme successo della fiction Doc 2 - Nelle tue mani su Rai 1 il 30enne Alberto Malanchino aspetta conferme sulla terza serie: il dottor Gabriel resterà o tornerà in Etiopia? Alberto è italiano, come il papà, mentre la mamma arriva dal Burkina Faso e lui, che ama definirsi «afrodiscendente», ha le idee molto chiare. «Tra dire "di colore" e "nero" preferisco il nero che è un bellissimo colore – ci spiega –. Altrimenti il bianco diventa il "golden standard" cui tutti gli altri colori fanno da contrappunto». Concetti insegnatigli dalla madre, cui deve anche la passione per la recitazione grazie ai grandi film su cui lei ha imparato l’italiano. «Io da piccolo ho divorato La Piovra, Il Padrino i film di Aldo, Giovanni e Giacomo e Jim Carrey. Durante le medie ho avuto le prime esperienze teatrali all’oratorio e a scuola – aggiunge –. Ringrazio ancora la mia insegnante di diritto a Ragioneria che ci portò a vedere Le allegre comari di Windsor a Milano. Mi innamorai. Pensai: "Da grande voglio fare questo. Voglio essere pagato per essere pazzo"». E così arrivano i corsi alla Civica Scuola di Teatro "Paolo Grassi" di Milano e a Biennale College a Venezia. Lavora poi a teatro con Moni Ovadia, in tv con Crozza e in fiction come Un passo dal cielo e Don Matteo. Dal 26 aprile sarà in scena alla Sala Umberto di Roma nella pièce The boys in the band.
Il sogno è che presto non ci sia più bisogno di precisazioni, aggiunge: «L’obiettivo su cui lavoriamo è di rendere normale questo tipo di processo, che gli attori neri possano interpretare tanto il panettiere, l’avvocato, il medico, il poliziotto quanto lo spacciatore e l’immigrato. Vogliamo avere la possibilità di poterci immedesimare in ogni ruolo oltre il colore della pelle e speriamo nell’effetto a cascata su attori di origine asiatica o sudamericana che fanno parte di questa società». La fiction italiana finalmente sta rappresentando l’Italia multiculturale? «Il colore non allinea il pensiero – spiega Malanchino –. Si tratta di avere voglia di raccontare lo spaccato della società di oggi e occorre dare merito a una generazione di scrittori e sceneggiatori che sta sfidando le leggi di mercato». Come il suo Gabriel, un personaggio fra due mondi «che alla fine capisce che la lealtà è l’appartenenza a se stesso, che casa corrisponde al luogo e alle persone che amiamo».