Il bilancio. L'illusione di un Sanremo che si dice giovane e invece non sa invecchiare
L’uomo in frac sta lasciando Sanremo 2019, cilindro in testa danza sconnesso col bastone in mano il ballo delle incertezze, tipiche del telespettatore (cittadino) medio nazionale. «Dov’è l’Italia amore mio?» si chiede uno smarrito Motta che si è perso, come noi.
In Italia siamo convinti che il calcio e il Festival siano lo specchio del Paese reale. E’ un’illusione? Forse no. Da chi ci governa, a stento, fino a chi – per abitudine o tradizione – per cinque giorni si sdraia davanti alla tv per ascoltare le canzoni sanremesi, vive tutto con senso di impotente assuefazione. Schermati, prigionieri del virtuale come e più dell’adolescente di Daniele Silvestri. Siamo “argentomorto”.
Eppure qui a Sanremo dicono – quasi tutti – che l’ex incantatore di magliette fine, Claudio Baglioni, nell’ultimo biennio ha fatto magie. Riforme ultra-gialloverdi. Ha fatto sparire le eliminazioni dei cantanti, ha tolto le nuove proposte ma ha trasformato il Festival in un Paese per giovani. I cantanti in gara sono stati accuratamente selezionati ben sotto la soglia di età degli splendidi quarantenni di morettiana memoria. Ugole appena uscite dalla fascia anagrafica da Zecchino d’Oro, e per questo sorvegliate e protette a vista da Cristina D’Avena presente sul palco dell’Ariston.
Ma credetemi, questa ventata di gioventù è una grande illusione. Semplici e un po’ banali, sono ritocchini chirurgici, come quelli a cui si sottopongono violentemente le poche donne ammesse (sei le cantanti su 24 concorrenti) al Festival. «Dimmi che non vuoi invecchiare», oltre che l’ovvio non vuoi morire, è il nuovo refrain di Baglioni, ma anche di Patty Pravo che, pur di esserci al Festival si è fatta accompagnare dal “nipotino” Briga. Uno dei tanti rapper diventati neomelodici pur di fungere da giovani badanti dei rari vecchi cantori sopravvissuti (oltre al vecchio capitano coraggioso “Baglion”). Senilità, altro che Sincerità cara Arisa.
La vincitrice morale, secondo giudizio unanime, è Loredana Bertè, una che non è mai diventata una signora e che viaggia per i settanta, dopo essere stata una ragazza prodigio degli irriverenti, fraterni e “liBertè” anni ’70. Patty e Loredana sono lo specchio nello specchio, deformato, del Paese reale. Due grandi artiste, nazionali (bandito l’internazionale, anche come ospite gradito), ma hanno dimenticato una vera donna italiana, la più grande attrice del nostro cinema, Anna Magnani, che scacciava il truccatore quando voleva coprirgli le rughe dicendogli: «C’ho messo una vita a fammele venì».
Siamo un Paese di Dorian Gray, dai finti statisti che viaggiano in felpa e tuta cangiante a seconda dell’opportunità, all’Achille Lauro che gioca a fare il giovane Vasco quarant’anni dopo Vado al massimo. E invece, purtroppo stiamo andando a scarto ridottissimo. E ha ragione Aldo Grasso quando dice che «Sanremo ha l’incapacità di immaginare il futuro».
Questo è un Paese che guarda sempre indietro - ma che non ha memoria storica - e lo fa con nostalgia e con la capacità di piangere alle feste (al Festival) e di ridere ai funerali. Consoliamoci con il resto del mondo, anche quello così vicino e così ostile francese non sta messo meglio, specie se i gilet gialli vengono qua a Sanremo (per una settimana capitale mediatica dell’Eurovisione) come quattro amici al bar a fare la gita fuori porta.
Noi italiani siamo perennemente in gita, un popolo condannato a inseguire il passato che non torna più e un futuro che va assai più veloce delle biciclette di Bartali e Coppi, alla Milano-Sanremo che fu. Siamo uomini e donne che hanno scarsa cura di sé e fanno fatica a recepire l’appello di Cristicchi «Abbi cura di me».
L’uomo in frac sa che il futuro non è mai passato da qui, davanti a questo mare d’inverno, e su un taccuino ha appuntato indirizzi di uomini e donne che vivono o vissero d’arte. Non saranno mai gli stessi di quelli Achille Lauro, ma come lui si rivolge a Dio, e lo prega: «Tieni da parte un posto e segnati sti nomi».