Nella vita di Enzo Ferrari, il “papà italiano” delle automobili più famose nel mondo, il rapporto con la fede ha giocato, all’insaputa dei più, un ruolo decisivo. Infatti fu un monaco benedettino, don Alberto Clerici, amico personale del Drake di Maranello, a… salvare la carriera del costruttore modenese. L’anno era il 1957. La Mille Miglia, popolarissima competizione stradale, venne funestata da un terribile incidente. Il 12 maggio, la Ferrari guidata dallo spagnolo De Portago uscì di strada all’altezza di Cavriana, nel mantovano. Fu una strage: insieme a pilota e copilota, il giornalista americano Edmund Gurner Nelson, morirono altre nove persone. Cinque erano bambini. Stravolto dal dolore e vittima di una campagna mediatica che gli costò il ritiro del passaporto e un processo penale (venne assolto con formula piena), Enzo Ferrari aveva deciso di abbandonare le corse.
Andò a Cesena, a confidarsi con Don Clerici. Ma il religioso lo convinse a cambiare idea con una frase che Ferrari non dimenticò mai: «Tu, come ogni essere umano, hai ricevuto dal Signore i tuoi talenti e sei bravo a fare auto speciali. Scappare dalle responsabilità non è mai una soluzione, devi andare avanti...». Il resto è cronaca che si fa storia, tra macchine sempre più affascinanti e grandi vittorie sui circuiti. Pur non essendo praticante, il costruttore di Maranello si era rammaricato per le posizioni critiche assunte da esponenti della Chiesa, nel corso degli anni, a proposito del presunto disvalore etico delle competizioni motoristiche, spesso teatro di incidenti mortali. Ma quella che forse era soltanto una incomprensione (e non da tutti condivisa, come dimostrano le parole di don Clerici) venne simbolicamente sanata nel giugno del 1988.
Quando, in occasione della visita alla Diocesi di Modena, Giovanni Paolo II varcò i cancelli della Ferrari. Il Papa fece un giro sulla pista di Fiorano, a bordo di una Rossa guidata da Piero, il figlio di Enzo. Gravemente malato (si sarebbe spento due mesi dopo), il Drake riuscì però ad avere un colloquio telefonico con il Pontefice: per la cui salvezza, nel giorno dell’attentato di Alì Agca, aveva raccontato di «essere tornato a pregare come un bambino». Vicenda che Leo Turrini racconta nel libro-intervista
Mio padre Enzo al figlio di Ferrari, Piero, pubblicato da Wingsbert House, di cui pubblichiamo un estratto relativo ai ricordi di quei giorni.
Vorrei parlare con lei, Piero Ferrari, di un incontro, di una visita finale, simbolica, quella di Giovanni Paolo II, il grande Papa polacco che nel 1988 venne a visitare la Ferrari e suo padre Enzo, a cui rimanevano poco più di due mesi di vita. Un passaggio fondamentale nel rapporto tra la Chiesa cattolica e l’automobilismo, le corse. In passato c’erano state delle asprezze, addirittura i gesuiti avevano paragonato Enzo Ferrari a Saturno, divoratore dei propri figli. Ecco, come maturò questa riconciliazione?«Ci fu questa visita del Papa in Emilia Romagna e quindi anche a Modena e provincia. E come località fu scelta Maranello, e più precisamente Fiorano, la cui pista si prestava molto al gran numero di fedeli. E mio padre, tramite l’allora direttore sportivo Marco Piccinini, che essendo di origini romane e avendo...».
... Buone conoscenze in Curia, come si dice: lo chiamavano monsignore ai box, Piccinini...«Esatto, aveva qualche contatto... Ma mio padre amava molto Giovanni Paolo II, anche in televisione vi vedeva un grande carisma. E quando lo avevi di fronte non riuscivi a parlare. Non ti uscivano le parole dalla bocca perché ti emozionavi. Senza che lui dicesse o facesse nulla di particolare. Mio padre purtroppo non l’ha potuto incontrare perché quel giorno aveva la febbre a 40°. Era all’inizio della sua malattia...».
Però ebbero occasione di parlare, al telefono.«Sì, certo, io ho una foto che conservo nell’ufficio, di mio padre che parla al telefono con Giovanni Paolo II».
E tu hai fatto da autista al Papa, invece?«Sì, questo non era previsto perché quando scese dall’elicottero (con lui c’era monsignor Stanislao Dziwisz), il Papa vide la Toyota bianca, la papamobile, che lo aspettava per farlo girare tra i fedeli, in pista a Fiorano. E chiese al monsignore: «Come mai oggi non abbiamo una Ferrari?». E quello si rivolse a me dicendo: «Possiamo procurarne una per Sua Santità?». E allora trovammo una Mondial Cabrio in officina, con pochissimi litri di benzina... e la guidai io col Papa al mio fianco».
E lui, Giovanni Paolo II, ti ha detto qualcosa del giro in macchina? Perché anche lui... è stata la prima volta che è salito su una Ferrari.«Sì, poi io lo vidi una seconda volta, che poverino era molto ammalato e gli rimanevano pochi mesi, e gli dissi: «Sua Santità, io ho avuto l’onore di guidare la macchina con lei a fianco». E lui mi disse: «Mi ricordo».
Penso che tra le sue tantissime esperienze, sia stato qualcosa di particolare...«Be’, credo che sia stato un momento di notorietà per la Ferrari, ma anche per il Santo Padre, modestamente, perché quella foto andò su tutte le prime pagine, su tutti i quotidiani...».
Ma che rapporto aveva tuo padre con la religione? Perché ne ha scritto spesso nelle sue memorie... aveva un grandissimo amico, che era quel frate benedettino, a Cesena, padre Clerici, no? Era importante per lui la religiosità o era una cosa che viveva con sofferenza?«Lui non andava in chiesa e non era osservante. Però aveva un rapporto particolare con alcuni religiosi. Era più il rapporto con la persona, che gli interessava. Gli interessava la persona che aveva qualcosa da dire e che poteva trasmettere qualcosa. Infatti, padre Clerici fu un personaggio importante nella sua vita, ed era un personaggio di un certo livello».
Diciamo che padre Clerici era un... Enzo Ferrari degli ambienti religiosi.«Era sicuramente un uomo di grande cultura. Ed era quello che apprezzavano. E anche don Galasso, che era il prete di fabbrica, una persona che ha fatto del bene a tante persone... anche con lui aveva un bellissimo rapporto. Venivano prima le persone e poi le cariche».
Quindi non gli interessavano le gerarchie...«No, ma quello che gli trasmettevano queste persone. Esatto».