Agorà

L'INTERVISTA. Ferlaino: «Io, Maradona e il Napoli di nuovo grande»

Massimiliano Castellani sabato 9 novembre 2013
«Benedetto Croce diceva che “Napoli è un paradi­so abitato da diavoli”, ma chi ha capito meglio di tutti la na­poletanità è stato Pier Paolo Pasolini, che ci definì una “grande tribù che ha deciso di estinguersi, rifiutando il nuo­vo potere, ossia quello che chiamano la storia o altrimenti la modernità”. È triste, ma forse è questa la vera faccia di Napoli…». Verità condivisa da un emblema della napoletanità: l’“Ingegnere” Corrado Ferlaino, 82 anni, il presidentissimo del Napoli dell’era Maradona: gli azzurri più forti di sempre. La squadra che con “El Pibe de Oro” in campo e con Bigon e Bianchi in panchina, vinse due scu­detti, una Coppa Uefa, una Supercop­pa Italiana e una coppa Italia.
«Ad es­sere precisi, due coppa Italia, la prima la vincemmo nel 1976, sette anni do­po che avevo rilevato la società da A­chille Lauro. Lui era un carismatico, capace di radunare 100mila napoleta­ni a piazza Plebiscito per un comizio elettorale. Io ho sempre evitato la po­litica. De Laurentiis somiglia a Lauro? Andiamo avanti, su...». No, piuttosto andiamo indietro, a quando fece l’affare-Napoli. «Il calcio che ho vissuto io era un business al contrario. Dal botteghino e con gli ab­bonamenti, allora uniche fonti di gua­dagno, incassavamo sui 25 miliardi di vecchie lire, ma per pagare gli stipen­di ai calciatori e le spese di gestione ti­ravo fuori 35 miliardi a stagione. Fate voi i conti…».
A leggerla così sembra la trama di mi­seria e nobiltà. «Era un calcio più po­vero, però era un mondo ancora ricco di umanità, di lealtà e anche più puli­to ». Obiezione Ingegnere: ma come più pulito, se nel 1980 scoppia il pri­mo scandalo del Calcioscommesse? «Nulla rispetto alle organizzazioni in­ternazionali che stanno dietro all’ul­tima Scommessopoli. Purtroppo an­che allora era stata la malavita napo­letana a mettere in piedi quel traffico di partite truccate. Io sono sempre sta­to per un calcio valoriale e ho pagato con continue minacce da parte della camorra... Paura? Certo, ma ho sem­pre risposto con il coraggio delle mie azioni».
Un temerario Ferlaino che l’estate del 1984 riuscì a strappare alla concorren­za di mezzo mondo il «sì» di Diego Ar­mando Maradona, portato sotto il Ve­suvio per la cifra record di 13,5 miliar­di di lire. Preso praticamente per tutto “l’oro di Napoli” e così ci fu chi parlò di “schiaffo alla miseria popolare”. «Ma­radona fu l’investimento di una società privata e non un sacrificio da lacrime e sangue a carico dell’ente pubblico, il qua­le oggi come allora, non provvede ai bi­sogni di una città in cui manca tutto...», ribatte Ferlaino. Ma a quel suo Napoli, in campo non mancava proprio niente. «Per trent’an­ni mi sono occupato della società 24 ore su 24 e in prima persona, perché non mi fidavo di nessuno… No vabbè, massima stima per ottimi collabora­tori come Italo Allodi e Luciano Mog­gi.
Moggi era l’anima nera del nostro calcio? Io conosco solo il Moggi di Na­poli, dirigente bravo e di successo, an­che perché facevo tutto io...- ridac­chia - . Per me fare il presidente vole­va dire metterci sempre e comunque la faccia». Dall’album dei ricordi riappare il vol­to radioso e commosso dell’Ingegnere che esulta per il primo storico scudet­to del 1987. Una festa epica con tanto di minicrociera del Golfo, a bordo di u­na nave in cui c’erano solo il presiden­te e la squadra. «L’unico “straniero” e­ra Massimo Troisi (l’aveva portato Ci­ro Ferrara) che è stato l’ultimo grande esempio di napoletanità...».
L’anno se­guente, era previsto un bis annuncia­to e invece il Milan vinse in rimonta al San Paolo (3-2) e completò la rincorsa con il sorpasso tricolore. Una sconfit­ta che ancora brucia e che ha genera­to il sospetto, mai sopito, che in quel crollo improvviso ci fosse la mano criminale della malavita. «È il sospetto che hanno avuto tutti e naturalmente anch’io… Però mi sono consolato con lo scudetto del ’90, quando eravamo noi a rincorrere il Mi­lan e poi l’abbiamo superato. Mi pia­ce pensare che nel calcio come nella vita, i ruoli a volte si invertono e che in fondo successo e fallimento cam­minano sempre a braccetto sopra a un filo sottile». Filosofia dell’uomo che ha creduto che «le vittorie del Napoli fossero un ri­scatto sociale per città» e del presiden­te di «un club del Sud che per la prima volta poteva lottare alla pari e addirit­tura sconfiggere i grandi potentati del calcio del Nord… Quando il Napoli ha cominciato a vincere a Torino contro la Juventus, sono arrivati anche gli scudetti».
Quando però la luce luminosa del ge­nio di Maradona si è spenta, è iniziato il lento declino, con tanto di scheletri nel ventre di Napoli: dal doping a ai guai fiscali. «Delle pompette con l’uri­na “pulita” che i compagni prestavano a Maradona per farla franca all’anti­doping l’ho saputo dopo… Un presi­dente di calcio è come il marito a cui la moglie fa le corna, è sempre l’ultimo a venire a conoscenza dei fattacci. Il do­ping l’ho scoperto nel ’91, quando Die­go fu trovato positivo. L’evasione dei 40 milioni di euro? Nasce da un vecchio contenzioso su un contratto per i diritti di immagine che facemmo stipulare a Maradona, Careca e Alemao: quest’ul­timi due firmarono le carte del ricorso, Diego no. Ecco come si ritrova ancora con quella faccenda tutta aperta, quanto as­surda, come certe reazioni…».
Un finale di partita che ha incrinato i rapporti tra il padre patron e il suo fi­gliol prodigo. «Cosa prova Maradona per me? Mi vuole bene un giorno sì e l’altro no, ma Diego è fatto così, è un e­terno scugnizzo. Io invece gli sarò sem­pre grato per tutto quello che ha fatto per il Napoli. C’è stato un momento che l’ho “imprigionato” e pur di tener­lo ho rinunciato alle vagonate di mi­liardi che mi offriva il Marsiglia di Ta­pie. Come potevo lasciare andare un genio del genere? Andato via Diego è stata dura...». Ma vent’anni dopo l’epopea marado­niana, il Napoli è tornato ai vertici e il popolo sogna con la squadra di Rafa Benitez: «Grande tecnico e napoletano nell’anima, a differenza di Mazzarri che comunque ha fatto bene». Una squa­dra che sta stregando tutti, ma che Fer­laino segue solo alla tv: «Perché la par­tita si vede meglio in poltrona, a casa. Al San Paolo ci sono tornato una sola volta, l’8 ottobre scorso, per l’intitola­zione della sala stampa al compianto Carlo Iuliano, dirigente e addetto alle pubbliche relazioni del mio Napoli».
Domani sera dunque, solito rito da­vanti alla tv per uno Juventus-Napoli che gli ricorda: «Il duello tutto genio tra Platini e Maradona e quel gran signo­re di Giampiero Boniperti con il quale condividevamo l’abitudine di lasciare la tribuna alla fine del primo tempo. Per me era una scaramanzia crociana, della serie: non è vero, ma ci credo. La fede? L’ho trovata anche in campo, nel­la profonda religiosità di Alemao». Quel Napoli per Ferlaino rimane una fede. Di questo di Higuain e Hamsik spera «che batta la Juve e nonostante la concorrenza che è aumentata, riesca a conquistare lo scudetto. Quanto ci vorrà perché questo Napoli vinca tan­to quanto il mio? Ah, dovete chiederlo a De Laurentiis. Andiamo avanti su…».