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Arte. Il Museo diocesano di Feltre, la bellezza come terreno d'incontro

Alessandro Beltrami domenica 13 maggio 2018

La sala dei tesori nel Museo diocesano di Belluno-Feltre, nel Palazzo Vescovile di Feltre

Chi ha voglia di riconciliarsi con l’Italia, programmi una gita a Feltre. Siamo appena poco oltre il fronte delle prealpi, tra noi e la pianura veneta c’è il Monte Grappa mentre poco distante mormora il Piave. A ovest in fondo alla Valsugana c’è Trento. La valle è ampia ma la cerchia dei monti è un anticipo di Dolomiti. Eppure nell’eleganza dei palazzetti cinquecenteschi si respira ancora profumo di laguna. Feltre, ventimila abitanti, la metà nelle frazioni, ha una storia antica (polo commerciale retico e romano, quindi diocesi un tempo assai vasta e potente) e ricca di testimonianze che il presente vuole valorizzare: dall’area archeologica sotto il sagrato del duomo, appena fuori le mura, e la restaurata grande statua in marmo greco di Esculapio, al magnifico Teatro de La Sena, gioiello di Antonio Selva, l’architetto della Fenice, di cui si sta lavorando alla messa in sicurezza per la riapertura totale. La cittadella murata conserva intatta l’aura rustica e aristocratica di una piccola capitale montana. L’essere rimasta a margine del boom economico, e delle conseguenze sul paesaggio, da svantaggio si è trasformato per Feltre in una nuova opportunità e un turismo culturale di qualità sembra essere una delle leve di sviluppo.

Punta di diamante del panorama culturale feltrino è il Museo Diocesano, che riapre in una nuova veste ampliata (da 9 a 27 le sale) con il completamento del restauro dell’antico Palazzo Vescovile. È il frutto di una rivoluzione lenta e caparbia, che ha come protagonisti il direttore monsignor Giacomo Marzorana e un’equipe guidata dall’architetto Gloria Manera e dalla conservatrice Tiziana Conte. Fino a venti anni fa il Palazzo era quasi un rudere. Ridotto a caserma con Napoleone, durante la Grande guerra ospita 500 fanti e 50 quadrupedi. Il colpo di grazia negli anni 40 e 60, quando diventa sede dei Canossiani e poi colonia estiva dei sordomuti. Nel 1998 l’allarme: l’edificio, ormai abbandonato, rischia di crollare. E allora l’intuizione di monsignor Marzorana: risanarlo per ospitare le opere d’arte che le parrocchie chiedevano di mettere in sicurezza e realizzare il Museo della diocesi di Belluno-Feltre.

Venti anni, ma non è una consegna in ritardo. Si tratta di accordare disponibilità finanziarie e cantiere ma con l’idea finale bene chiara, a partire dal progetto culturale. Nei primi anni Duemila l’edificio è in sicurezza e si passa all’allestimento. Nel 2007 aprono nove sale. Ma intanto il restauro riparte: e sotto le piastrelle, le mani di vernice, i muri che tagliano le stanze ritorna alla luce una storia lunga 800 anni – che l’intervento meditato passo per passo dell’architetto Manera lascia visibile come in un palinsesto – da castello del vescovo-conte al progressivo ingentilirsi in palazzetto tardogotico, dalla ristrutturazione in chiave aulica del Rinascimento (di cui è testimone un grande affresco di scuola padovana, con chiari riferimenti alla lezione del Mantegna) alle raffinatezze settecentesche.

La visita del Museo è quindi un percorso duplice: le opere e l’edificio si integrano per raccontare la storia di una comunità. Poco meno di sette milioni di euro il costo complessivo, di cui quattro solo per l’ultima fase, con un preventivo rispettato al centesimo. Sono stati sfruttati bandi europei e regionali, un contributo essenziale è arrivato da Cariverona. Un investimento senza dubbio importante. Eppure non pare per nulla eccessivo. Perché è necessario ribadire che la Chiesa non può fare a meno degli strumenti culturali: per capire se stessa, nelle pieghe della storia particolare in cui si riflettono le grandi dinamiche di quella universale; per ridefinire la complessità di un’identità attuale senza la quale è difficile avere sia voce che orecchie in un dialogo; per offrire un volto a chi la incontra per la prima volta. Ma non bastano le parole, bisogna crederci. Non c’è carità senza cultura e non c’è cultura senza carità. «Perché si fa un museo diocesano? – riflette Marzorana – Perché come insegnano papa Francesco e i suoi predecessori, l’arte è uno strumento privilegiato per annunciare Cristo. In questo momento, aiutare a incontrare Cristo attraverso la bellezza è particolarmente importante«. Per questo il percorso è stato dotato di strumenti per avvicinare ogni tipo di pubblico «mentre abbiamo già in programma di approfondire il discorso iconologico e iconografico».

Un Museo diocesano è innanzitutto un museo del territorio, e la comunità feltrina è il primo referente: «Un primo segno è che tante parrocchie hanno prestato volentieri le loro opere. Molte vengono in visita, spesso portando i gruppi per un momento di catechesi, ad esempio in occasione dei sacramenti. C’è quindi una coscienza dell’importanza del museo come strumento pastorale. Non è ancora piena, ma si sta aprendo». Anche perché nelle sale organizzate tematicamente il patrimonio – raccolto anche grazie al lavoro di schedatura svolto negli scorsi anni – è sorprendente. A partire dal calice in argento del diacono Orso. Risale al VI secolo ed è il più antico calice occidentale giunto fino a noi. E poi la croce in bosso di fattura greca datata 1542. Realizzata a traforo a giorno, vertiginoso capolavoro di ebanisteria che sfida l’oreficeria, in 37 centimetri di altezza presenza 52 nicchie istoriate con 485 figure, poco più grandi di qualche millimetro. O ancora la gotica Vergine in alabastro del Maestro dell’altare di Rimini.

Il repertorio della scultura lignea spazia da crocifissi del Trecento più espressionista a santi del gotico cortese fino a una collezione di pezzi del bellunese Andrea Brustolon, tra cui un’Assunta tra i vertici della scultura barocca europea. La presenza importante nel territorio della Certosa di Vedana, tuttora resa viva dalle monache sacramentine, è testimoniata da capolavori di Sebastiano Ricci (anch’egli bellunese) e – per via delle soppressioni – dal reliquiario a busto di san Silvestro papa di Antonio di Salvi, datato 1497, proveniente dalla fiorentina Certosa di Galluzzo.

Tra le opere di pittura spicca la Madonna col Bambino tra i santi Vittore e Nicola di Bari, firmata da Tintoretto. San Vittore, patrono della diocesi insieme a Corona (la loro festa è domani), ha uno stendardo color scaglia rossa di Feltre, la roccia su cui è costruito il palazzo. Il santuario che conserva i corpi dei due martiri si sbalza su uno sperone roccioso, a pochi chilometri dalla città. Risale alla fine dell’XI secolo, èun’architettura potente, nordeuropea, ingentilita da affreschi (alcuni di scuola giottesca) e da capitelli in niello realizzati da maestranze di San Marco – due hanno provenienza araba.

Nella salita ci accompagna Filippo, 20 anni. Liceo classico, studente di Giurisprudenza, sguardo sveglio, cultura ricca e parlantina fresca, in un istante cancella ogni cliché sui giovani. Fa parte dell’associazione “Il Fondaco per Feltre”, alcune decine di volontari che garantiscono l’apertura di chiese e palazzi (a ingresso gratuito) oltre al teatro, di Feltre. Sono loro ad accogliere e guidare i visitatori nel Museo Diocesano insieme all’Associazione Ars Sacra. Alla base c’è l’amore e l’entusiasmo per un patrimonio comune e quindi da condividere. Chi vuole riconciliarsi con l’Italia programmi una visita a Feltre.