Agorà

INEDITO. Federigo Tozzi: «La mia conversione»

domenica 14 novembre 2010
Io mi sarei messo a ridere se qualcuno, tre anni fa, m’avesse detto: Tu crederai in Dio. Perché dunque a poco a poco, quasi contro la mia volontà, io mi son sentito invadere da un sentimento religioso così decisivo da far dipendere da esso tutta la  mia vita  intellettuale? Perché riprovavo dolcezze che credevo perdute per sempre? Perché subivo momenti di trasporto entusiastico verso una cosa indefinibile ma così forte che io dicevo: se rompo questo tenue velo, io troverò che questa tale cosa è luminosa più di ogni altra luce?Era la luce della fede che mi prendeva a poco a poco: la fede che aumentava in me di pensiero in pensiero, quantunque con pause lunghe di qualche mese, durante le quali al mio scetticismo nudo e squallido si accompagnava un’inerzia mentale senza precedenti. Non sapevo nemmeno io se avrei potuto continuare fino in fondo alla strada intrapresa. Ma era una strada o un vano rigonfiamento dell’anima? Talvolta soffrivo di questo dubbio; ma non poteva ancora raccomandarmi, cioè pregare come si prega senza servirsi, né meno per simboli muti, delle parole. Ma non m’accorgevo che la mia attesa stessa era una grande preghiera, forse che mi sia stata concessa di rivolger al Signore! Non m’accorgevo che, a mia insaputa, il substrato della mia anima s’era mutato!Intanto tutti i miei scatti, i miei impulsi, le mie violenze inaudite, precedenti anche al periodo che precorse la fede, mi si adunavano come un’angoscia unica e muta, un’angoscia fasciata strettamente non si sa da che cosa; talvolta, un singhiozzo solo esprimeva tutte le mie sottili e disperate sofferenze, le mie lotte, le mie rivolte contro tutto e tutti. Sentivo di avere sofferto troppo e che per tale ragione la mia anima non avrebbe mai rasciugato le sue lacrime. Né quelle di un tempo né quelle nuove che eran prodotte per la presenza di quelle vecchie. Non riuscivo a spiegarmi perché la mia anima fosse stata così rinchiusa, come una sorgente che è presso la superficie ma non può uscire.Capivo, nondimeno, che m’ero protetto da me stesso abbastanza bene; e che avevo fatto in modo che da qui in innanzi non avrei perduto la più piccola quantità delle mie energie: m’ero preparato a trasformare in lavoro la più profonda sensibilità. Ma c’era ancora tempo! Allora, in questo distacco abissale che pareva tra me e un cominciamento di vita nova e soddisfatta, m’apparve la necessità della fede non più soltanto nella mia anima in consumabile ma in Dio! in Dio!Ah, quale fu la profondità della grazia, per cui la prima volta sentii il fanatismo voluttuoso d’inginocchiarmi! Quale brivido mi rimase a lungo in tutta la carne! E pensai che sarei diventato subito un perfetto credente, ma non avvenne così. Entrando in chiesa sentivo una sottilissima ironia allegra, non voleva né meno guardare gli atti del sacerdote all’altare. Respingevo ancora questa attrazione, volevo ancora pigliare tempo. Ma l’idea della mia fede non mi dette più tregua. Mi rimproveravo, ora, di non compiere le pratiche rituali di tutti i credenti; cercavo di spiegarmi perché le comuni preghiere mi sembrassero quasi insipide, ripugnanti a me. Il che era causa di ritardare ancora. Ma la mia fede sprizzava scintille all’improvviso come talvolta una selce sì accende per caso battendola con un’altra. E io calpestavo la mia fede. Io ne facevo ancora un comodo assestamento mentale, procurando che se ne rimanesse così scialba e senza infastidirmi. Avevo paura delle sue rade ma scottanti scintille!Inoltre, riflettendo che fino a tal tempo ero vissuto senza credere, mi urgeva assicurarmi del perché ora avveniva questa trasformazione. Non c’era più l’ostilità, ma la prudenza (come la chiamavo allora). Inoltre io volevo conquistare completamente questa grazia con un’insolita gioia cinta di elementi di bellezza: volevo essere certo di acquistare un altro mondo.Poi passarono molti mesi con più indifferenza. Lavorai molto, e le letture continuate di autori mistici, e specie di Dante, mi fecero ritrovare la strada a cui non pensavo più. Ma la ritrovai, questa volta, non più in abito dimesso di pellegrino, ma ero a cavallo e con una spada in mano che fiammeggiava continuamente. Queste ultime parole sembrano una costruzione retorica; ma non è vero. Mi pareva realmente di avere in mano questa spada; e talvolta essa fiammeggiava si forte che mi si scattavano le mani e m’andava via la vista. Dopo, in quegli albori violenti, io vedevo la mia fede, la vedevo sempre più determinata, sempre più prossima, sempre con più effetto e sapevo ch’essa sarebbe entrata in me, e che una mattina, a pena desto, avrei urlato di gioia sentendola anche dentro la mia carne.Quale fu dunque il tumulto del suo possesso ormai non più contrastato! Da essa sentivo irrigata la mia anima come da caldi fiumi di una consolazione incommensurabile. Pareva che nel cavo di una mia mano potesse raccogliersi una mare intero. Ed ora ho questa fede, quasi furiosa, piena di violenze che nessuna energia potrà diminuire. Un libro di preghiere, sia pure scritto stupidamente m’è dolce e grande, perché è la mia anima che ingrandisce le parole a seconda del proprio bisogno. Il marmo di tutte le cattedrali che io ho ammirate silenziosamente, per lunghi anni, pare si sciolga, tanta fiamma è in me. Questa mia inaspettata giovinezza nova mi esalta quanto m’è necessario. E quando penso ch’essa procede da una realtà divina ed immortale, poco mi curo di tutto il resto.