Lo storico Jones. «Fede e suprematismo, l'eco di antichi errori»
Manifestazione di protesta contro il razzismo negli Usa, promossa dal “Black Lives Matter”
Gli archivi parrocchiali della First Baptist Church of Christ di Macon, in Georgia, custodiscono ancora alcuni registri del 1855 che testimoniano come, di fronte alla difficoltà a far quadrare i conti, la comunità fosse ricorsa alla vendita dei suoi stessi membri neri, schiavi, per ripianare i bilanci. I libri mastri riportano le entrate provenienti dalla vendita di due adolescenti, 950 dollari ciascuno, e le corrispondenti uscite per le spese degli immobili e lo stipendio del pastore. Per quanto questa vicenda appaia inquietante, purtroppo non si tratta di un’eccezione. Il cristianesimo, negli Stati Uniti, giocò un ruolo cruciale nel legittimare una visione del mondo basata sulla supremazia bianca, che avrebbe plasmato e influenzato le coscienze dei fedeli ben oltre l’epoca della guerra civile, quando le prime bandiere sudiste venivano cucite nelle parrocchie, fino a oggi. «Quando parlo di supremazia bianca non mi riferisco solo a loschi personaggi coperti da lenzuoli che bruciano croci, ma all’idea secondo cui per volontà stessa di Dio, che avrebbe marchiato i discendenti di Caino col colore scuro della loro pelle, i bianchi sarebbero stati destinati a stare in cima alla piramide sociale, politica e culturale». È a partire dalla sua stessa sofferenza di uomo di fede che Robert P. Jones, direttore del Public religion research Institute di Washington e cristiano battista molto attivo da adolescente nella sua comunità di Jackson, Mississippi, ha deciso di raccontare la storia dell’'eredità del suprematismo bianco nel cristianesimo americano', come recita il sottotitolo del suo nuovo libro White Too Long, pubblicato negli Usa da Simon & Schuster. Un saggio a metà tra la storia e le scienze sociali, scritto per affrontare la verità sul passato, invitare a prendere coscienza del presente e decidersi a cambiare rotta.
Lei racconta una storia che la riguarda da vicino: ce ne parla?
Sono cresciuto nella Southern Baptist Church, la cui origine risale proprio alla divisione della Chiesa battista intorno al tema della schiavitù, a cui i membri del Sud non volevano rinunciare. Ma, pur trascorrendo cinque giorni a settimana in parrocchia tra catechismo, celebrazioni e mille attività, non sentii mai parlare di queste radici fino a vent’anni passati, quando ero seminarista. Ne accennarono in una lezione di storia, ma ebbi modo di andare più in profondità solo una decina d’anni dopo, durante il dottorato in Teologia, perché nella comunità non c’era discussione su questi temi. Erano rimossi.
Eppure, questo 'peccato originale' non è stato superato e i frutti avvelenati emergono dalle analisi sulle convinzioni degli americani di oggi...
Col nostro istituto di ricerca sociale, specializzato in sondaggi sulla pubblica opinione all’intersezione tra politica e religione, abbiamo elaborato un 'indice del razzismo' che tiene conto non solo di atteggiamenti espliciti di ostilità verso altre persone sulla base dell’appartenenza etnica ma anche di attitudini più sottili che, magari lavorando sotto il livello della coscienza, si traducono nel sostegno a un certo ordine sociale a spese dei neri. L’indice si basa su quindici domande che vanno dall’opinione sui monumenti confederati a questioni sistemiche come gli omicidi di cittadini neri da parte della polizia. Ebbene, su una scala da uno a dieci, con dieci a significare il massimo livello di razzismo, il campione di evangelici bianchi raggiungeva il punteggio di otto mentre cattolici e protestanti di principale tradizione arrivavano a sette. Invece, i cittadini senza affiliazione religiosa si fermavano al livello di quattro.
Ma come è possibile?
La reazione a questi dati, di solito, è scioccata. Ma se prendiamo sul serio la storia, la vera domanda da farci è: come potrebbe essere altrimenti? Questo modo di pensare è entrato nel nostro dna ed è ora di rendercene conto per cambiare. Ne va dell’integrità della nostra fede.
Che cosa dovrebbero fare le Chiese oggi per superare questa pesante eredità?
Spesso ci si concentra sulla riconciliazione, ma penso che il passo da compiere ancora prima sia il riconoscimento dei danni provocati ai nostri fratelli neri e di ciò che è stato loro tolto, materialmente e in termini di opportunità. È dalla giustizia che passa il pentimento. Me ne sono convinto osservando l’esperienza di due parrocchie battiste della stessa cittadina in Georgia, una bianca e una nera, i cui pastori hanno guidato le proprie comunità in un difficile cammino di confronto sulla loro storia condivisa, in cui sono stati affrontati apertamente temi come il fatto che gli antenati degli uni avevano ridotto in schiavitù quelli degli altri, o dettagli molto concreti, per esempio l’evidenza che la parrocchia bianca fosse più ricca di quella nera. Un percorso arduo, che ha richiesto un sincero esame di coscienza, ma che ha iniziato a gettare veri ponti.
Papa Francesco ha annunciato la nomina a cardinale di Wilton Gregory, arcivescovo afroamericano di Washington: un segnale importante?
Molto. Per il messaggio che questa nomina lancia e perché scelte di questo tipo possono davvero cambiare dall’interno le priorità delle Chiese locali. Ecco perché è importante che aumentino i vescovi afroamericani, ma anche i sacerdoti e i religiosi nelle congregazioni, visto che ognuno di loro porterà con sé la sua esperienza e la sua sensibilità e avrà modo di trasmetterla ai fedeli. E non si tratta di un compito facile, come ci insegna la storia: negli anni delle lotte per i diritti civili, c’erano organizzazioni ecclesiastiche e leader religiosi in prima linea per il cambiamento, ma poi nelle chiese i neri rimanevano negli ultimi banchi e potevano ricevere la Comunione solo dopo gli altri. Anche oggi, le dichiarazioni dall’alto non servono, bisogna impegnarsi nelle parrocchie, quotidianamente insieme ai fedeli.