Musica. La spiritualità di Franco Battiato: fede e filosofia tra «gesuiti euclidei»
Franco Battiato durante un concerto in Spagna nel 2005
Per un Papa aveva cantato, per quello attuale l’avrebbe fatto volentieri, anche se non gli aveva risparmiato critiche in punto di dottrina. Posizione paradossale, d’accordo, ma per un frequentatore dei mistici come Franco Battiato questo non era un problema. Abituato alla coincidenza degli opposti e alla contemplazione dell’ombra attraverso la luce, poteva dichiarare simpatia per Francesco e intanto ritenersi insoddisfatto della sua prospettiva spirituale.
Questo gli interessava: l’esperienza interiore, la pratica di meditazione ed eventualmente di illuminazione, non l’appartenenza a una denominazione religiosa. Un dato, quest’ultimo, messo in evidenza anche dal direttore di Civiltà Cattolica, padre Antonio Spadaro, tra i primissimi a commentare la morte di Battiato con un tweet che riprende, non casualmente, alcuni versi di La cura, una delle più ammirate e si potrebbe dire “ecumeniche” tra le canzoni dell’artista siciliano: «E guarirai da tutte le malattie / perché sei un essere speciale / ed io, avrò cura di te». La cura uscì nel 1997, come singolo dell’album L’imboscata.
Più indietro nel tempo risale la citazione scelta dal cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, che sempre su Twitter si rifà a un classico indiscusso come Prospettiva Nevski: «e il mio maestro mi insegnò com’è difficile trovare l’alba dentro l’imbrunire». Il brano proviene da Patriots, il disco che nel 1980 conferma il successo di Battiato e, per molti aspetti, dà inizio al dibattito sulla sua figura. Sì, perché prima di venire universalmente acclamato Battiato è stato un personaggio dibattuto, e proprio per quanto riguarda le sue posizioni spirituali. Il suo nome era uscito dalla cerchia ristretta dello sperimentalismo musicale nel 1979, grazie all’immediata fortuna di L’era del cinghiale bianco, un pezzo che con quell’assolo di violino ben si prestava a essere preso per una specie di filastrocca, a metà strada tra il Branduardi di Alla fiera dell’est e il Vecchioni di Samarcanda (dove il violino, a ogni buon conto, lo suonava Branduardi, e non il leggendario “Maestro” Giusto Pio).
Equivoci a parte, anche quella canzone abbondava di riferimenti esoterici, ribaditi all’interno dell’album da un brano come Il re del mondo, il cui titolo deriva da un trattatello iniziatico di René Guenon, poi curiosamente riecheggiato nel Titanic cinematografico di James Cameron. Certo, nell’Era del cinghiale bianco c’era posto anche per l’ipnotica Pasqua etiope, il cui testo è in realtà un centone di latino liturgico, ma di qui ad annettere Battiato al cristianesimo ce ne passa. E infatti non è quello che succede con Patriots né con il successivo e apparentemente più divertito La voce del padrone. Qualcuno inizia a trovare coincidenze non casuali tra i testi del cantautore e il catalogo Adelphi di quegli anni, e anche senza Wikipedia non ci vuole molto per verificare che L’Egitto prima delle sabbie (l’album à la Stockhausen registrato nel 1978, subito prima della svolta pop: il brano del titolo consiste di un’unica frase musicale ripetuta al piano per un quarto d’ora) è un omaggio abbastanza esplicito alle visionarie pretese di Georges Gurdjieff, il grande officiante della misteriosofia d’inizio Novecento.
Con buona probabilità proprio lui, Gurdjieff, è il modello del “maestro” che in Prospettiva Nevski intrattiene i discepoli sui segreti del crepuscolo. Bisogna dirlo con franchezza: tutto questo riflettere sull’anima non attira a Battiato l’approvazione della sinistra di allora e invece favorisce, come non sgradito effetto collaterale, l’apprezzamento da parte del mondo cattolico. Che non si annetterà mai completamente la sua discografia (impresa impossibile, visto che Battiato stesso dichiarava serenamente di credere nella reincarnazione e non nella risurrezione), ma sarà sempre disponibile a cogliere la profondità spirituale di alcuni brani.
Anche il famoso concerto del 18 marzo 1989, svoltosi in Aula Nervi alla presenza di Giovanni Paolo II, va inserito in un contesto più ampio, corrispondente allo slancio che il Pontefice aveva imposto al dialogo interreligioso con lo storico incontro svoltosi ad Assisi il 18 aprile 1986. Dei brani che si susseguono nell’esibizione dell’89 (la prima del genere mai svoltasi in Vaticano) il più sintomatico è l’ultimo, Oceano di silenzio, nel quale alla metempsicosi pudicamente si allude nei versi in tedesco.
L’immagine finale, con Battiato che si alza dalla sua posizione accoccolata per ricevere i complimenti di papa Wojtyla, è l’istantanea di un periodo entusiasmante e complesso, con il Muro di Berlino già traballante e il sogno della pace all’improvviso più concreto. E Francesco? Nelle interviste degli ultimi anni Battiato aveva elogiato più volte la sua volontà di riforma, si era detto disposto a cantare per lui, ma non aveva nascosto che avrebbe preferito una maggior insistenza di papa Bergoglio in materia teologica. Sempre con rispetto, sia chiaro, e sempre al di qua di un’adesione formale alla Chiesa. Coerente con sé stesso, Battiato non ha mai smesso di pensare a Dio come all’“Inviolato” della tradizione coranica, attorno al cui nome impronunciabile aveva edificato quella bellissima Ode che resta probabilmente il suo vero atto di fede.